martedì 11 settembre 2018

Il sentiero sotto i piedi

Questo brano fa parte di un fantastico progetto ideato dal Maestro Fabio La Malfa, ed è pubblicato nel volume intitolato "Judo, superare i propri limiti", pubblicato nel 2018 dalla Luni Editrice.

Per info sul libro cliccare qui





Mi chiamo Alessandro Bruyère, vivo a Torino, ho 35 anni, e sono un judoka.

Fa sempre sorridere osservare l’espressione di chi ascolta queste parole. E’ difficile che qualcuno non addetto ai lavori riesca a cogliere in quell’ultima parola, che così tanto mi rappresenta, l’essenza di ciò che nasconde.
Il mio presentarmi come judoka non è un mero affermare che, come si sente spesso nel linguaggio comune, faccio judo.
E non è neanche un tentativo di apparire in un certo modo o di appropriarmi di ciò che non è mio.
E’ un riconoscermi in quel termine. E’ un rendermi conto che ciò che sono, e chi sono, è il risultato di ciò che ho fatto finora. E nonostante io abbia fatto nella mia vita un sacco di cose meravigliose, alle base c’è sempre stato il judo. E’ sempre stato il mio filo di Arianna, ciò che mi ha aiutato a destreggiarmi nel labirinto della vita di tutti i giorni, e che ha sempre rappresentato per me il sentiero che ho avuto e che ho sotto i piedi.
Per questo, sono un judoka.

Mi è stato chiesto più volte, nell’arco di una vita intera, che cosa mi abbia dato il judo. Se dovessi fare un elenco dettagliato di ciò che sento che mi ha dato citerei senza dubbio la sicurezza in me stesso. La capacità di risolvere problemi e situazioni. L’adattabilità. La non paura di cadere, in qualsiasi circostanza, letterale e metaforica. La capacità, un grande classico, di rialzarmi. La bellezza della gara. La pervicacia e la testardaggine. La confidenza con la vittoria, e con la sconfitta. La tecnica. Le orecchie gonfie e le dita storte. Quell’irrazionale piacere di avercele, le orecchie rotte e le dita storte. Il rispetto e la disciplina. Il profumo del tatami, e la sensazione che quest’ultimo dà nel riempire la pianta di un piede abituato a salirvici.
Citerei la mia forza, non quella fisica ovviamente.
Citerei le delusioni, figlie legittime di aspettative e sogni. E quindi citerei i sogni. Quelli nel cassetto, quelli raggiunti e quelli che sono rimasti tali. In qualsiasi modo li si pensi, la benzina vera per un corpo semi perfetto come il nostro.
Citerei le innumerevoli gare e gli innumerevoli viaggi. Gli alberghi di lusso delle gare più prestigiose e quelli a una stella (forse) delle gare (forse) più belle. Pulimini, aerei, macchine, treni, bus. Catapecchie economiche e appartamenti mozzafiato. La capacità di fare la borsa. Centinaia, migliaia di borse. Fatte e sfatte e poi rifatte e risfatte. Come si piega un judogi? E una cintura?
Citerei, seguendo il flusso di coscienza in cui mi sono immerso, l’affetto mostratomi e sentito a mia volta per i miei genitori, mia madre sempre preoccupata e mio padre primo tifoso in assoluto, presente ad ogni gara. In qualche modo entrambi anche ad ogni allenamento. Se non fosse stato per loro non lo sarei, un judoka.  E mio fratello, senza il quale indubbiamente non sarei la persona che sono.

Citerei ancora una quantità illimitata di aspetti, credo, ma immagino che potrei assommarli tutti in un unico concetto: quello dell’esperienza.
Un’esperienza che è fatta di conoscenza e sensazioni, di emozioni difficile da dire. Di avvenimenti che rimarranno per sempre, alcuni esilaranti, altri incredibilmente emozionanti, altri umilianti, alcuni difficili da superare. Tutti irripetibili.
Credo che sia questo, ragionando mentre scrivo queste parole, il vero valore aggiunto del judo per me.

Non sono in grado di dire se esista o meno qualcos’altro in grado di fornire una medesima esperienza. Cioè, esiste senza dubbio, ma non conoscendo niente altro di simile non posso fare paragoni.
Credo che sia proprio l’esperienza che il judo ti dà, a renderti judoka al 100%.
E non sto intendendo l’esperienza data dal puro agonismo. E’ vero, il mio judo è sempre stato agonistico e improntato al raggiungimento di mete sportive. Ma come ho già avuto modo di scrivere in altre sedi, non penso si possa parlare di tipologie di judo differenti. Può essere diverso l’approccio, la quantità di tempo che ci si dedica, i fini. Ma il judo è sempre lo stesso. In qualsiasi modo e in qualsiasi luogo lo si pratichi, sono fermamente convinto che regali un’esperienza ineguagliabile. E diversa per ciascuno di noi. I miei studi e i miei viaggi hanno arricchito il mio judo, spogliandolo in parte dalle vesti di agonista e lasciandolo solo in judogi.

Ho avuto l’incredibile fortuna di poter fare del judo la mia vita in toto. E’ il mio lavoro, oltre che la mia passione. In seguito ai risultati ottenuti in età giovanile a 21 anni ho avuto il privilegio di entrare a far parte del Gruppo Sportivo delle Fiamme Azzurre, quello della Polizia Penitenziaria, che mi ha permesso di dedicarmi al 100% al tentativo di raggiungere i miei sogni e che tuttora mi permette di farlo.
Questa mia fortuna si è tradotta nel raggiungimento di un altro grande traguardo, quello di diventare un allenatore. Le sfide cambiano, le difficoltà si trasformano, le emozioni si moltiplicano. Il judo rimane.
Ora ho un modo per trovare un senso ai i miei errori, e per darne uno diverso a ciò che invece ho fatto bene. Ora guardo sia indietro lungo la strada fatta fino ad adesso, sia avanti verso quella che mi aspetta, e trovo un senso ancora maggiore a questa mia esperienza.
Il mio è un tentativo di trasmettere ciò che il judo mi ha dato e mi sta dando. Qui, con queste parole. Sul tatami, coi miei ragazzi. E nella vita di tutti i giorni, con le persone che mi stanno accanto.
L’obiettivo è quello di trovare il modo giusto per farlo. E’ difficile tradurre le proprie emozioni e le proprie sensazioni agli altri. Il rischio è quello di volere che le altre persone capiscano al volo, vivano le situazioni come le ho vissute io, imparino le cose come le ho imparate io. Più per facilità di comunicazione, che altro.

Ma proprio come quando combattevo, quando ogni avversario era diverso e ognuno aveva il suo modo personale di fare judo, rendendo quest’arte marziale senza dubbio una delle più affascinanti e difficili al mondo, ogni mio allievo, ogni persona, vive il judo e la vita a modo suo. E averlo capito davvero, dopo un attimo di sconforto di fronte ad una difficoltà così grande, mi ha dato una visione ancora più favolosa del judo, che come mio padre non si è mai stancato di ripetermi: è lo specchio della vita. E mi ha dato soprattutto nuovi stimoli e nuova voglia di continuare a calcare quel tatami.
E capisco che non solo il judo mi ha dato ciò che sono, ma mi darà ciò che sarò. Che io continui a salirci sul tatami, come spero fermamente, sia che io non lo faccia.
Non è questione di fare judo, ma di essere judoka.

venerdì 7 settembre 2018

Gita al Bric Ghinivert

Accademia on the Rocks



Sabato 21/07/2018
Destinazione: Bric Ghinivert. Alpi Cozie, Alpi del Monginevro. 3037 mt. Parco Naturale della Val Troncea. Partenza: Laval. Parcheggio a pagamento: 5 euro. Possibilità di navetta: 5 euro a/r. 3,5 euro a tratta. Fino a Rifugio Troncea 1915 mt. 3486053503 per prenotare il servizio.


E’ forse raro vedere un gruppo così eterogeneo inerpicarsi in fila indiana su per sentieri montani e paesaggi mozzafiato. Eppure oggi il judo dell’Accademia Torino ha deciso di colorare in maniera variegata e inusuale la splendida Val Troncea, andando alla conquista coi sui judoka dei 3037 mt del Bric Ghinivert.

Il “bullmino” e la macchina del veterano Giorgio hanno infatti fatto scendere nel parcheggio di Laval, località deliziosa subito oltre Pragelato e Pattemouche, ben 12 atleti e il coach Ale. Le regole del parco prevedono infatti la possibilità di lasciare i mezzi nel parcheggio di Laval, al prezzo di 5 euro, e di poter decidere se raggiungere il Rifugio Troncea a piedi (40 min.circa) o usufruendo del servizio navetta (5 euro a/r, 5-10 minuti di tragitto).
I preparativi sono lenti a raffazzonati, ma anche se in fretta e furia i judoka riescono a farsi trovare puntuali (partenza ore 09.00 dal parcheggio) e a raggiungere così il rifugio. Un veloce caffè e le ultime dritte del coach, soprattutto ai neofiti: la passeggiata è facile e sicura, ma la montagna non va mai sottovalutata e va sempre rispettata. Un po’ come un compagno/avversario di judo.
Concentrarsi, respirare e aprire gli occhi e le orecchie. E via.

Il sentiero Ept 320 inizia poco sopra il rifugio, ed è sempre molto ben segnalato. Tramite di esso ci si infila in un fresco lariceto e tramite altrettanto facili tornanti si guadagna gradatamente quota, uscendo lentamente dal bosco e continuando su pendii erbosi. Un bivio permette di allungare il percorso passando dall’ Angolo e dalle miniere di rame abbandonate, girando a destra, ma la squadra di torelli decide di avviarsi verso la cima, ed eventualmente di compiere un anello al ritorno.
Continua il sentiero e continuano i tornanti sempre senza grosse difficoltà e con pendenze sempre poco faticose, e in due orette e mezza circa, considerate anche le numerose pause tentate dai ragazzi, ma smorzate dal coach, i judoka raggiungono lo splendido colle del Beth con i suoi affascinanti laghi. La temperatura è alta, e un favorevole sprazzo di cielo azzurro fa pensare a tutti (quasi) la stessa cosa. Da lì a dar via alla pazzia è un attimo: ad uno ad uno i ragazzi (chi di sua spontanea volontà chi un po’ più forzato..) si spogliano ed ognuno a modo suo trasforma quella piscina naturale dai colori che sanno di dipinto in un gelido parco acquatico. 
Il sole gioca con loro, nascondendosi all’ occasione dietro nuvole che da lì in avanti si faranno sempre più grosse e pesanti, costringendo i ragazzi alla repentina ritirata.

Il Bivacco del Colle del Beth, subito sopra i laghi, è una location perfetta per un pasto veloce e una pausa rigenerante. E’ chiuso e le chiavi sono da richiedere e ritirare direttamente all’ ingresso del parco chiamando preventivamente (10 euro a notte su prenotazione), ma nonostante ciò offre riparo dal vento e comode panchine.
Dopo un panino veloce i torelli decidono di lasciare gli zaini nel locale invernale, sempre aperto e molto spartano, e di andare finalmente in cima. Il Bric Ghinivert dista meno di un’oretta, durante la quale si risale l’evidente punta su pietraia e sfasciumi spruzzati qua e là di neve, ma potendo seguire una traccia ben segnalata da ometti e qualche segno di vernice. Difficile sbagliarsi in ogni caso, la croce di cima compare dopo un breve tratto, non resta che guardare bene su che pietra si poggia il piede e salire buttando un occhio verso l’alto.
La cima è un vero spettacolo. Il panorama a 360 gradi regala un’ottima visuale di tutta la Val Troncea, con un affaccio fantastico sui laghi e il bivacco, che giacciono tranquilli su di un terrazzo naturale circondato dalle ultime nevaie che intaccano un verde non ancora accesissimo ma suggestivo.
Qualche ragazzo soffre l’altezza, per alcuni di loro è la prima volta in quota. Ma l’euforia di aver raggiunto tutti insieme l’obiettivo eclissa ogni altra sensazione. L’emozione è palpabile, anche tra i più abituati. Andare in montagna in tanti può essere un problema sotto tanti aspetti, ma la condivisione di quel momento ripaga tutto il resto. Si starebbe su per delle ore.

Le nuvole però iniziano a gonfiarsi su in alto e la nebbia sembra volerle raggiungere dal basso. Una lieve pioggerella bagna delicatamente i k-way del gruppo, che a malincuore decide di iniziare la discesa.
Il ritorno al bivacco è veloce e divertente. Da lì, il coach e Giorgio studiano la cartina e decidono per l’anello. Dopo un tratto iniziale sul percorso di salita, si devia a sinistra verso le miniere. E’ troppo tardi e il tempo troppo brutto per cercarle e visitarle, e così si scende ancora. Raggiunto il punto chiamato l’Angolo, altra deviazione. Entrano in gioco cartina e bussola, visto che ormai la visibilità è poca. Una bozza di sentiero, sicuramente utilizzato dai pastori, scende ripido verso il punto in cui (teoricamente) si trova il rifugio. Nonostante la pioggia intervallata da breve schiarite, le mucche puntellano il tragitto, curiose dello strano gruppo che scende zoppicando dai loro campi. Qualche marmotta fugge bagnata da una tana all’ altra, dopo aver salutato i ragazzi con i loro acuti fischi.
In un paio di ore mai piacevoli per ginocchia provate dallo sport, in cui si attraversano due torrenti che tagliano i relativi valloni, si intravede finalmente il rifugio alla fine del bosco di larici affrontato da un altro ingresso.
E dopo 6 ore e 22 esatte, l’anello è completato, per un totale di 12 km e di 1000 mt di dislivello in salita e altrettanti in discesa.

Il Rifugio è aperto e operativo, e la navetta a disposizione per riportare alle macchine i nostri ragazzi. Un tagliere di salumi e toma e birre e acqua fresche sanciscono la fine dell’avventura, che senza dubbio ha avuto l’effetto desiderato. Non solo regalare paesaggi pazzeschi anche ai più abituati, non solo fungere da allenamento estivo e  unire ancora di più il gruppo. Ma anche far assaggiare la montagna ai judoka che non la conoscevamo, di quel sapore di cui poi, una volta conosciuto, difficilmente si riesce a fare meno.

#forzatorelli