domenica 4 novembre 2012

La meraviglia che spunta dal caos


 

Capita, alle volte, che un viaggio che decidiamo di fare si rilevi lo specchio di ciò che abbiamo nell’anima.


E’ una di quelle cose che in fondo sai anche se non ci avevi mai pensato. Una di quelle cose che qualcuno ti dice e tu dici Sì ovvio come se lo avessi sempre saputo. Ma in fondo non ci avevi mai pensato.

Quando la persona che te lo dice lo fa in un salotto di una casa indiana, in un pomeriggio di pioggia a Varanasi, città colorata di colori e spiritualità, dopo averti sentito raccontare una storia, annuisci, dici Sì ovvio come se lo avessi sempre saputo ma in fondo non ci avevi mai pensato, sorridi e finalmente un po’ capisci perché sei lì.

Se nella tua anima, e di riflesso nella tua mente, che in fin dei conti se non esistesse una non potrebbe esistere l’altra, è il caos, nessun luogo al mondo potrebbe essere più adatto ad entrambe se non l’India.

L’india è il caos.

Ci metti un po’ a realizzarlo, quando arrivi. Esci dall’aeroporto di Delhi che è tardi, mezzanotte passata, e la tua guida cartacea ti consiglia di prendere un bus che ti porti fino alla stazione centrale di Nuova Delhi. Per scrupolo ti avvicini comunque a quel ragazzo in piedi vicino ai taxi per capire quanta differenza ci sia temporalmente e pecuniariamente tra le due soluzioni, e subito non ci fai caso che non gliel’hai chiesto tu ma è lui che ti ha informato direttamente sul taxi, pubblicizzando la tempistica e dimenticandosi  la pecunia. Col bus ci metteresti troppo, sir. Sì, è vero, ma probabilmente spenderei molto di meno. Accompagnato ancora dallo scrupolo di prima allora cerchi di capire da dove parta il pullman e ti sorprendi di trovar risposta così  facilmente. Però questa volta non ti sei accorto che è stato l’altro ragazzo, quello che si occupa di riscuotere la seppur minima tariffa del bus, che ti ha portato alla suddetta fermata e giocando con la tua stanchezza e la sua faciloneria ti ha accomodato sul sedile di quel pullmone che da fuori sembrava vecchio almeno come da dentro. Cinque minuti e si parte, sir.

Al fatto che, mentre cerchi di sfruttare la poca luce emanata da quella lampadina così consunta e stanca almeno quanto te per leggere sulla tua guida l’indirizzo della zona degli hotel da fornire a qualcuno che speri ti ci accompagnerà, il ragazzo che ti ha accomodato su quel sedile è a un metro da te che ti fissa, beh, a quello ci fai caso. Ma pensi sia una sua prerogativa, lo guardi interrogandolo con lo sguardo sul perché di quella radiografia che ti sta facendo e lui sorride e muove il capo, dondolandolo. Ci sono ancora così tante cose che non sai, dell’India.

Non lo puoi sapere, ancora, che lo faranno tutti, fissarti e ciondolare la testa a quel modo. Non ti sei ancora accorto di quanto quella cultura e quella società possano essere diverse dalla tua cultura e dalla tua società, non ne hai avuto il tempo. Hai in testa le nozioni di pagine che hai letto, immagini che hai visto, parole che hai sentito di chi ha esperito prima di te. Ma tanto lo sai quanto vivere un mondo sia diverso dal leggerlo, guardarlo attraverso qualcosa, sentirlo raccontare.

E’ vivendolo, un luogo, che ti entra nell’anima.

Ci si mettono il caso, gli eventi e la sorte, che dopo il viaggio in India non ti va proprio di chiamare sfortuna se riferita a te, a ingarbugliare la trama e a farti trovare alle tre e mezza del mattino non in una stanza d’albergo, seppur piccola e sporca, ma in una macchina che tenta di sfrecciare  alla volta di Jaipur. Non sai bene neanche tu come sia successo, ma per via del Giorno dell’Indipendenza indiana, l’orario folle e il fuso orario, la stanchezza sopra citata, un agente turistico anche se addormentato e furbo comunque disponibile, hai appreso che l’unica soluzione accettabile che avevi era acquistare questo “pacchetto” e affidarti a Rinku, giovane autista assonnato almeno quanto te e l’agente turistico, che ti avrebbe da contratto accompagnato alla scoperta del Rajastan, indirizzandoti infine, dopo quattro giorni di compagnia, verso Varanasi.

Sali in macchina nei sedili posteriori esausto e senza pensare a tutto ciò, deciso a guadagnare ore di sonno e ingannare quelle con le quali il viaggio di andata si sta prolungando.

E dopo qualche minuto il caos che finora hai visto negli eventi ti si presenta in tutto ciò che vivi. L’India.

Ci provi, a dormire, ma come fai? La strada è musicata ininterrottamente dai clacson delle macchine e dei camion che sembrano partecipare tutti alla folle corsa automobilistica verso Jaipur, in premio siori e siore un clacson tutto nuovo. Please Horn, recitano le scritte dipinte a mano sul didietro dei molossi stradali. Glielo chiederai poi a Rinku, il perché di quelle scritte, e la risposta sarà: Perché così  sanno dove sei e non ti schiacciano. Sei sdraiato per ora e ascolti solo. Non ci credi del tutto, alla situazione. Fai difficoltà a trovare una posizione che possa bloccarti e permetterti di toccare il meno possibile il sedile di quell’auto. Poco da fare, ognuno è figlio del luogo in cui vive. Sempre lei, la stanchezza, ti droga al punto da farti chiudere gli occhi sporadicamente, forse stai dormendo, il tempo e i chilometri e la veglia si mischiano senza che tu te ne accorga. Il caos ha deciso di presentartisi lentamente e per ora entra dal finestrino che un po’ apri per il caldo e un po’ chiudi per il vento. E ad un tratto la macchina è ferma, ti accorgi che stavi dormendo e ti tiri su. Rinku sta dormendo con un panno sul viso e i clacson sfrecciano là fuori. Ti guardi attorno e sei in una specie di area di sosta, immagini.

Non è tanto quello che credi essere un bar, o un negozietto in cui fanno bollire in un recipiente metallico del latte per farlo poi diventare chai, quel tè indiano delizioso, e neanche le persone che ci lavorano e ci dormono sul bancone e a terra, lì accanto, che catalizzano la tua attenzione. Sei già stato in giro per il mondo, su, e di bar impolverati e sporchi e persone strane e ne hai già visti parecchi, forse anche di più malmessi. No, non sono loro che la catturano, la tua attenzione, quanto dall’altro lato della macchina la mucca magra e enorme che ha la nuca praticamente appoggiata al finestrino e sembra guardarti. Ciao.

Quando dopo che sarete ripartiti lo racconterai a Rinku, della mucca, lui ti guarderà sorridendo come lo si fa ad un bambino e col passare delle ore ti accorgerai di quanto banale e ridicolo fosse il tuo racconto. Come lo potrebbe essere a casa tua il raccontare con sorpresa di aver visto un piccione attraversare la strada, o un bambino in un passeggino, o un parcheggio a pagamento. O un gesto ipocrita.

Rinku l’autista si sciacqua il viso da una pompa idrica a mano, di quelle che schiacci e l’acqua vien su da sotto terra, beve il suo chai di cui per ora ipotizzi il gusto, si rimette in macchina e ripartite. Sei accanto a lui ora, il sole ha fatto capolino da dietro l’orizzonte e comincia a illuminare un po’ il paesaggio. Alcune cose sono le stesse ovunque. Quelle che non dipendono da noi  soprattutto. Con o senza di noi a viverla e caratterizzarla la natura è una sola, inspiegabile e stupenda.

 

Sarà quel tuo primo viaggio verso Jaipur, ora che sei seduto accanto a Rinku, che ti presenterà l’India. La prima impressione è sempre la più difficile da gestire, che sia lei che conti o meno.

E così eccoti l’India servita là dietro al finestrino, mentre voli slalomeggiando tra mucche, capre, asini, cammelli e scimmiette e buchi e radici e cartacce che abitano la strada.

Da bravo figlio della società in cui vivi lo noti subito dopo gli animali, il degrado. Non vorresti chiamarla sporcizia per rispetto ad una cultura che non è la tua e non vorresti giudicare, ma non lo trovi un altro termine che renda l’idea. Il termine povertà lo dai erroneamente per scontato, senza badare al fatto che l’un termine non può non richiamare l’altro.

 

E poi veloci come stelle cadenti che appaiono nel buio del cielo stellato, i colori.

L’aspetto che da subito più ti affascina di questo nuovo mondo in cui sei capitato. Il risalto dei colori nel grigio del degrado.

I sari delle donne. Quelli delle bimbe. I turbanti degli uomini. Gli abiti dei sadhu. Le bancarelle. Le sciarpe. I dhaba, i gioielli e il cibo e le spezie e le camicie e gli animali e i templi.

Il giallo, l’arancione, il rosso, l’azzurro, il verde, il blu e il viola e il rosa e l’oro. Di un’intensità insensata. Di una bellezza disarmante.

Una tela grigia e bucherellata su cui un bimbo con una tavolozza dei colori più accesi in mano si diverte come un matto.

Bellissimo.

 

Ti sorprenderà per tutto il viaggio, questo contrasto. E arrivato dalla prima impressione ti accompagnerà in tutte le altre. Capirai che è da lì che nasce quel caos così peculiare. Dai contrasti.

Il tuo viaggio durerà un mese e tu e il tuo zaino viaggerete per centinaia e centinai di chilometri. Vedrai Kajuraho e Arga, rimarrai estasiato dinnanzi al Taj Mahal, dormirai in treno, ti sveglierai in stazione. Mangerai sul pavimento di un bazar di tessuti, noleggerai una moto, ti riparerai dalla pioggia sotto una tettoia assieme ad una mucca, sarai ospite in una casa indiana, scapperai da un torello che vorrebbe giocare con te, scivolerai nel gange, arriverai fino a Kolkata, lavorerai come volontario negli ospedali. Filosofeggerai con un padre di famiglia in un vagone del treno, conoscerai persone, assaggerai pietanze, andrai in montagna, visiterai templi e musei, vedrai Mussorie e Rishikesh, andrai al cinema, camminerai per chilometri, ospiterai nel tuo corpo un batterio che si divertirà col tuo stomaco e la tua salute, mangerai per strada e berrai litri di chai.

E il contrasto non mancherà mai. Lui, il contrasto,  e quel senso di vuoto che hai nello stomaco, non mancheranno mai. Ti manca qualcosa, dall’inizio. Qualcuno, per l’esattezza.

 

Un giorno di questo mese di questo viaggio in questa India scatterai una foto che ti farà capire meglio ciò che percepivi.  Sarai a Varanasi, quella città che già qualcos’altro ti aveva rivelato. Starai scendendo verso i ghat, quei gradini che fungono da moli e da spiagge del sacro Gange, da dove gli abitanti di Varanasi al mattino e alla sera scendono fino al fiume per immergervisi e pulirsi e purificarsi, nascondendo in quel gesto sempre lui, il contrasto: un atto di assoluta purificazione spirituale, ma anche corporale per molti, nell’acqua che tu e il tuo mondo non potete non ritenere una delle più sporche che avete mai visto.

Sarai lì in una di quelle viuzze di quel dedalo varasanese e uno dei tanti sadhu catturerà la tua attenzione. Il sadhu per chi se lo stesse domandando, ma anche per chi non lo stesse facendo in fondo, è un induista asceta che per raggiungere la liberazione dell’anima dedica la sua vita all’abbandono della società. Per farlo vivrà solo delle offerte che gli si faranno. Senza abiti e coperto da cenci, col magro viso incorniciato in una folta e lunga barba grigia o bianca, aspetterà seduto al suolo che qualcuno aiuti il proprio Karma offrendogli qualcosa. Uno di loro catturerà la tua attenzione si diceva, seduto ai piedi di una motocicletta enorme e colorata. Blu di carena e cromata di fiammeggianti aggeggi la motocicletta, pallido di stanchezza e arancione di cenci e bianco di barba il santone. La modernità e l’antichità. Una foto che per te per sempre rappresenterà la tua India.

Poco più avanti un ragazzo scalzo accucciato al suolo che starà consumando il suo pasto attingendolo da quel così classico piatto di metallo si pulirà la mano sui pantaloni che gli fungono da unico indumento, estrarrà  con due dita il telefono cellulare che gli sta suonando in quei pantaloni e incastrandolo tra spalla e orecchio risponderà a chi chissà da dove lo sta chiamando, senza smettere di imboccarsi.   

Più tardi pioverà e tu sarai in quel salotto di quella casa a Varanasi, e parlerai con quel ragazzo che ti dirà che alle volte un viaggio può essere lo specchio di ciò che abbiamo nell’anima.

Starai bene, in quella casa. Il padrone che affitta camere ad un prezzo irrisorio a viaggiatori provenienti da ogni angolo del globo ti farà sentire come a casa tua, ti racconterà dell’India  e ti chiederà della tua casa, e ti regalerà un po’ di vita indiana genuina in tutta la sua semplicità. Sarà una tappa stupenda, Varanasi.

La pioggia fuori e la tranquillità dentro, quel pomeriggio, avvolgeranno quel discorso e le tue sensazioni di qualcosa di bello.

Quando saluterai il ragazzo salirai in camera tua e disteso sul letto peserai a tutto ciò.

Ti dirai che fino a quel momento non eri ancora riuscito a capire bene tanto l’India in sé quanto i suoi caratteristici abitanti. Ma ciò che hai visto durante il giorno e ciò di cui hai appena finito di parlare hanno acceso una luce tra i tuoi pensieri. Ecco cos’era. Il contrasto. E quindi il caos. La modernità della colonizzazione e della globalizzazione che si mischiano senza soluzione di continuità con il fascino della tradizione e dell’antichità. Il mondo contemporaneo misto a quello dei primordi. Il vecchio spruzzato di nuovo. E il nuovo spruzzato di vecchio. E i milioni di abitanti in un paese immenso e povero solo perché lì dov’è. E la frenesia di tanti per sopravvivere e l’ascetismo di pochi per doverne fare a meno.  

Sarà in quel momento che ti verrà in mente quell’immagine, che per te sarà l’India.

Un giardino che un tempo era curato e bellissimo e rigoglioso. Lasciato andare a se stesso. Distrutto. Ma con fiori e piante incredibilmente belli al suo interno che più forti del tempo e delle intemperie  e del mondo hanno resistito e spuntano qua e là nella desolazione di quel giardino che potrebbe essere un paradiso.

La meraviglia che spunta dal caos.

Un tempio da rimanerci di fronte a guardarlo per ore che spunta dalle macerie di una città in cui i marciapiedi sono immondizia e le strade sono anche impianti fognari. Costruzioni di antiche dimore di antichi re che troneggiano su vie in cui l’inquinamento dovuto ai miliardi di motorisciò fa mancare il respiro. Cerimonie di tradizioni antiche come il mondo ambientate nel pazzesco traffico cittadino e usate come pretesto per ricevere soldi dai turisti. Il bianco dei denti di un sorriso di un bambino povero e lercio che cammina nudo per la strada a fianco di una capra con cui forse vive. Fiabesche cascate nascoste in una foresta a sua volta nascosta in un monte ai cui piedi una località turistica convoglia orde di occidentali affascinati dalla spiritualità che un tempo c’era e forse oggi non c’è più. Un abbraccio di un bambino disabile che vuole ringraziarti di essere andato lì e di avergli dedicato anche solo pochi secondi della tua vita più fortunata. Paesaggi che a provare a descriverli si risulta ridicoli intervallati da sterminate città troppo povere per non essere caratterizzate dal degrado sociale e paesaggistico.

 

Non vuoi giudicare nulla e nessuno, stai solo cercando di capire. Non stai assolutizzando nulla. Quella è la tua impressione, influenzata dalla prima e da tutto ciò che finora hai visto, e che poi vedrai. E influenzata da ciò che hai dentro. Tua, privata e personale.  Quella non è l’India per chiunque, è l’India per te, ora. Sei in viaggio, e quello è lo specchio della tua anima.

Ti guardi dentro, allora. E finalmente un po’ capisci.

Ciò di cui avevi davvero bisogno, ciò che cercavi disperatamente prima di partire, era una forma da dare al tuo malessere. Perché sei fatto così e non la sopporti quella sensazione. Ami troppo la vita per stare male e non riuscire a godertela, ma male ci stai, per quanti sforzi tu faccia. E non trovi quella forma che ti servirebbe per liberarti di quel malessere. E allora decidi di partire di nuovo, un altro viaggio, per cercare qualcosa che neanche tu sai cos’è. L’India si sceglie da sola, o forse la sceglie quella tua anima di cui è lo specchio in questo momento.

Ecco cos’era, maledizione, il caos.

Mille e un pensiero che vorticavano nella tua mente, in un momento in cui le tue decisioni avrebbero forse per la prima volta determinato seriamente la tua vita. Cambiamenti, soluzioni da trovare, scelte da fare. Non più per gioco o per divertimento, ma per indirizzare la tua vita in quello che sarà stato poi il suo futuro. Decidere che strada prendere, e percorrerla. Non erano i problemi di per loro. Non erano neanche problemi, basta guardarti intorno là in India un secondo, per capirlo. Era semplicemente il caos.

Ma il caos sconvolge tutto, ingarbuglia la trama, mischia i colori, nasconde le strade, confonde, fuorvia, ruba serenità.

Non sai cosa fare, non capisci neanche tu. Fatichi a decidere, prendi decisioni sbagliate. Fai casini. Ti scoppia la testa, stai male, non dormi o se dormi lo fai male e poco.

Fin quando incredibilmente rischi di perdere ciò che hai di più bello. Sbagli tutto. Fai soffrire la persona che hai sempre giurato di proteggere e curare e che ami davvero e che in futuro nel tuo viaggio in India ti mancherà più di ogni altra cosa. Ti ci allontani credendo, senza sapere come, di risolvere le cose.  Provi a tornare sui tuoi passi. Litighi con la tua famiglia e con tuo fratello, che è una parte di te. Sbagli ogni cosa che fai. E così ti accorgi che davvero qualcosa non va, che così non puoi andare avanti. Devi ritrovare la tua serenità, o rischi davvero di mandare tutto a puttane.

Devi fare qualcosa, e trovi nell’India quel qualcosa. Non lo sai ancora, ma quel viaggio sarà lo specchio della tua anima.

Il contrasto. La meraviglia che spunta dal caos.

 

Le leggende e la particolarissima religione induista vedono il mondo creato e governato da tre dei. Brahman è il dio della creazione; Shiva è il dio della distruzione; Vishnu è il dio della conservazione e dell’equilibrio. Perché ci siano pace e serenità, per gli induisti, devono per forza esserci sia la creazione che la distruzione. Sia il bene che il male. A patto che siano ben equilibrati. La connivenza dei tre dei, dei tre elementi, fa sì che il mondo possa esistere e che in esso possa regnare la pace. Il male non è male in sé, ma un aspetto dell’essere.

Sarà passato un mese, dalla tua partenza. Una brezza leggera entrerà dal finestrino della macchina che hai preso a noleggio all’aeroporto. Sei tornato da pochissimo, giusto il tempo di ritirare il bagaglio e firmare le scartoffie per il ritiro dell’auto. Quella persona che provocava quel vuoto è a casa, in una città che non è quella in cui vivi tu. Sa che tornavi oggi, vi siete sentiti sempre da laggiù, anche se nel vostro tono, nelle parole in cui vi scrivevate, nei pensieri che facevate, c’era inevitabilmente sempre un briciolo di tristezza. La vostra estate avrebbe dovuto essere diversa, prima che tu impazzissi e decidessi di sacrificarla per cercare le tue risposte. Sa che tornavi oggi ma non ti aspetta, perché sarebbe troppo difficile vedersi oggi, i suoi impegni, i tuoi imminenti che ti aspettano da un mese,  la distanza tra le vostre città, soprattutto tutte quelle ore del tuo viaggio. Secondo i patti, vi vedrete tra qualche giorno, finalmente. Ma tu proprio non ce la facevi a non vederla subito e non darle almeno un bacio. E allora ti affidi ancora alla pazzia e per prima cosa corri da lei, per darle quel bacio, sorriderle, dirle che andrà tutto bene e quanto ti è mancata, quanto bene ti facesse saperla a casa ad aspettarti, e tornare alla tua vita, che anche lei è un mese che ti aspetta. E che vuoi sistemare un pezzetto alla volta.

Ma tanto ormai è di nuovo con te, la tua serenità. Era lì che ti aspettava, al tuo ritorno. Forse dovevi davvero andartene per capirlo. E’ il tuo mondo la tua serenità. Con i suoi, Shiva, Brahman e Vishnu.

E tu ormai hai in testa quel pensiero che non vedi l’ora di rivelare alla persona che tra qualche minuto abbraccerai. Quel pensiero che un viaggio forte e memorabile e immenso, in un luogo affascinante e senza eguali, ti ha regalato.

 Che alle volte il caos è necessario per capire ciò che di meraviglioso c’è.
 
 
 
 
 
 
Questo "racconto", partecipa al concorso letterario "Fogli di viaggio 2012", indetto in onore del grande Tiziano Terzani, giornalista e viaggiatore. Sezione A: Ogni posto è una miniera. Max 20000 battute.