L’arbitro
interrompe l’azione e io torno veloce al mio posto. Mi fermo un secondo, le
mani sulle ginocchia a cercare un sostegno per il corpo ormai pesantissimo, il
volto solleticato da un rivolo costante di sudore. Cerco aria nei polmoni, ma
ne trovo troppo poca rispetto a quanta ne vorrei. Il cuore sembra voler uscire
da dietro il petto, bruciandolo e
battendolo con colpi secchi e veloci; ritma una melodia frenetica. Sento
distintamente la pelle dello sterno contrarsi ad ogni singolo battito. Due
chiodi invisibili mi trafiggono gli avambracci e due tenaglie li stringono in
una morsa portentosa. Mi volto verso il tabellone del punteggio sperando di
leggere sul cronometro più secondi di quelli che invece effettivamente mancano
alla fine dell’incontro. Dodici. Pochissimi. Sto perdendo. E manca troppo poco
per recuperare. Lo sconforto che credevo di riuscire ad evitare invece arriva,
mi acceca per un istante, mi porta volteggiando in giro per il palazzetto.
Voci,
sguardi, applausi, fischi, urla, risate, pianti. Un vortice di immagini e
colori che mi obnubila la mente.
D’istinto
cerco un aiuto o un appiglio fuori dal tatami, provando per un attimo ad
ingannarmi, fingendo di non sapere alla perfezione che tanto è la dentro che
nei prossimi dodici secondi succederà qualcosa. E che là dentro ci siamo solo
io e lui, io e il mio avversario, per i
prossimi dodici secondi.
Ma poi lo vedo nel
marasma generale. E’ lì che sorride .Come sempre. Niente lo ha sconfitto. Mi fa un cenno impercettibile, come a dire Dai.
Come a dire Non è finita. Ce la fai. Provaci.
Magari me lo sto
inventando. Ma magari invece ce la faccio sul serio. Sono ad un passo
dalla qualificazione. Non posso mollare
ora. Dopo tutto ciò che ho fatto per arrivare fin qui.
Un passo. Sorrido. Ci provo.
Compito in classe.
Tema: “Parla del tuo personaggio preferito”.
Svolgimento:
Il Sistema di qualificazione per le Olimpiadi di judo, è uno dei più difficili
che ci sono. Con tantissime gare che si disputano negli ultimi due anni del
quadriennio olimpico si forma una “ranking list”. I primi ventidue atleti di
questa lista si qualificano per le Olimpiadi. Questa è la regola generale, poi
ovviamente ce ne sono molte in più. La più brutta, secondo me, è che si può
qualificare un solo atleta per nazione in ogni categoria. Il che può essere
proprio una rogna, se per esempio in una nazione ci sono molti atleti forti! Al
mio idolo è successo proprio così: lui è arrivato quattordicesimo e un altro
atleta italiano è arrivato tredicesimo. Così invece di partecipare tutti e due
alle Olimpiadi e poter entrambi dimostrare il loro valore, Francesco (si chiama
così il mio personaggio preferito), che ha avuto anche delle sfortune,
nonostante sia tra i pochi più forti del mondo non è potuto andare. Per me è
un’ingiustizia!
Ho
parlato con Francesco la prima volta durante il breve intervallo tra una
allenamento di judo e l’altro, quando noi piccoli abbiamo finito il turno e
scendiamo e i grandi si preparano a salire sul tatami. Che strano che si dica
“salire” e “scendere” dal tatami. Per chi non sa che quello è un posto
speciale, diverso da tutto il resto, è ancora più difficile da capire come
concetto. Credo si dica “salire” e “scendere” perché lassù è un altro mondo.
Lì, per esempio, il tempo è una cosa a parte: un allenamento può sembrarti
durare un mese intero o solo una manciata di secondi.
Quel
giorno proprio non riuscivo a non essere triste che fosse finito l’allenamento.
Avevo vinto tutti i combattimenti che facciamo alla fine della lezione e sapevo
che a casa non sarebbe stata una serata
allegra. La mamma aveva scoperto che
avevo preso una nota perché mi ero azzuffato in classe (stavo difendendo una
mia amica, ma alla maestra non interessava il motivo. I grandi pensano sempre
di sapere più cose di noi piccoli, ma invece ogni tanto mi sembra proprio il
contrario). Sono sceso per ultimo dal tatami visto che mi ci ero fermato per
mettere a posto un paio di cose, e i grandi stavano per iniziare. Francesco era
lì che rideva in mezzo agli altri ragazzi come se fossero tutti allo stesso
livello, anche lui dico, ma lui invece è un super campione, per quello è il mio
idolo. L’ho salutato come faccio sempre , lui mi ha porto la mano per battere
un cinque e io l’ho fatto con tutta la
forza che avevo per fargli vedere quanta ne ho. E’ rimasto sorpreso! “Wow, che
forza!!” ha esclamato, e subito dopo mi ha detto: “Fammi sentire i muscoli”. Io
ho piegato il braccio, stringevo così tanto che il kimono mi pizzicava la pelle
e ho contratto i muscoli il più possibile, quasi tremavo dallo sforzo. Lui ha
schiacciato il mio bicipite con le sue mani enormi e bitorzolute e ha fatto un
urlo facendo finta di farsi male alla mano. Abbiamo riso tutti e due e lui
facendomi l’occhiolino mi ha detto: “L’ultimo che scende dal tatami o è il più
pigro, o è quello che ha più voglia di tutti.” Io gli ho detto solo che sono
tutto fuorché il più pigro e lui mi ha dato un pugno (ma piano, se no finivo
per terra) sulla spalla e mi ha detto: “E’ così che si diventa forti”. Io ho
preso coraggio e ho risposto: “Come te?” Lui allora ha toccato il suo bicipite,
ha ritoccato il mio, e andando verso il tatami se no arrivava in ritardo ha
detto: “Beh, di più, speriamo!” Poi mi ha salutato ed è salito.
Io
volevo dirglielo però l’ho solo pensato, perché non ho colto l’attimo, ma è
impossibile: nessuno può essere più forte di lui.
Piano piano io e
Francesco siamo diventati ottimi amici. Ogni tanto
arriva all’ accademia un po’ prima che inizi il suo allenamento e allora sta lì
con i ragazzi a guardare la nostra lezione. Io quelle volte ci metto tutta
l’energia che ho, perché spero che stia guardando me e che veda quanto sono
forte!
Mamma
e papà lo sanno che è lui il mio idolo. Perché in casa, sul comodino di fianco
al letto, ho una foto di me e Fra (i suoi amici lo chiamano così, e io sono suo
amico, me l’ha detto lui) che qualcuno ci ha scattato durante uno stage in cui
lui era l’ospite d’onore. Ha spiegato un sacco di cose bellissime quel giorno e
poi ha anche combattuto con noi! Se c’è una volta in vita mia in cui ho tirato
fuori tutto quello che avevo in corpo è stata proprio quella volta lì. Ci sono
delle volte in cui ti alleni e alla fine senti che dentro hai ancora tanto da
dare e allora non sei soddisfatto. Ho anche fatto qualche garetta, quelle per
bambini, non le Olimpiadi o cose del genere, e anche lì ci sono delle volte in
cui finisci l’incontro e magari hai perso, ma sai che potevi dare molto di più.
Però non l’hai fatto e non sai neanche tu perché. Ecco, quella è la sensazione
più brutta che c’è. Se perdi l’incontro ma ci hai provato fino in fondo, con
tutto te stesso, certo, sei arrabbiato perché hai perso, ma almeno non hai il
rimorso di non averci provato davvero. Quello che potevi fare l’hai fatto, e
nessuno può vincere sempre. Se penso che anche Francesco ha perso degli
incontri vuol dire che allora perdere è normale in una disciplina in cui ci si
mette continuamente in gioco. Se no dove sarebbe il divertimento? Quella volta,
quando ho combattuto con lui dando tutto quello che avevo in corpo, ho deciso
che in gara dovrò sempre fare così, se poi vincerò o perderò sarà un altro paio
di maniche!
Questa
cosa l’ho anche detta a Francesco e lui era contento di sentirla. E’ successo
quella volta che mi ha parlato dei sogni. Non ricordo bene le
parole esatte, ma mi aveva chiesto qual era il mio sogno nel cassetto. Io non
ho capito subito e lui per spiegarmi mi ha detto che il suo era riuscire a
qualificarsi per le Olimpiadi. Mancava poco alla fine dell’iter di qualificazione
(lui lo chiamava così), forse una gara sola. Allora io ho capito che un sogno
nel cassetto è un traguardo che vuoi riuscire a raggiungere a tutti i costi.
Anche per me sono le Olimpiadi quel traguardo, ma mi vergognavo a dirlo. Allora
gli ho detto che per ora il mio sogno nel cassetto è qualificarmi ai campionati
italiani, quando potrò farli. Poi però lui sorrideva e stava zitto e allora gli
ho detto qual era davvero. “Bravo.” Ha detto. “Sogna in grande, ma un passo
alla volta! Ognuno ha i suoi obbiettivi, ognuno per chi è e per ciò che fa. Il
bello è cercare di raggiungerli tutti!”. “E se uno non ce la fa?” ho chiesto
io. “Ho detto cercare di raggiungerli, non raggiungerli per forza.” ha risposto
lui, sorridendo come sempre.
Conclusione: Il mio
idolo, che si chiama Francesco e fa judo, è un super campione fuori e dentro
dal tatami. Sfortunatamente per tante circostanze tutte incastrate e regole che
io odio, anche se ha raggiunto il suo più grande obbiettivo ed è rientrato in
quella lista dei più forti del mondo, non ha toccato il suo sogno. Ma questa
cosa non l’ha abbattuto e lui è rimasto innamorato del judo e sorride sempre,
come se avesse fatto le Olimpiadi. Credo che sia così perché sa che ci ha
provato fino alla fine, non ha mai mollato, e non ha rimorsi.
Un
passo. Sorrido. Ci provo.
A
qualche anno da quei discorsi con Francesco, se vinco questo incontro mi
qualifico per i campionati italiani. E’
il mio sogno, e comunque vada voglio essere come lui, nulla mi sconfiggerà.
Questo racconto partecipa al concorso letterario "TORINO, STORIE AL TRAGUARDO" indetto dall'Associazione Fare Insieme Onlus.