venerdì 14 dicembre 2012

Intervista rilasciata a "ItaliaJudo".

Intervista rilasciata a "ItaliaJudo", a cura di Alessandro Comi, in occasione della presentazione di Onirico Arbitrio.
 
 
 
 
Ale Bruyère: secondo "incontro" in libreria!


Alessandro Bruyère: un Signor judoka, uno di quelli il cui nome non passa inosservato. Classe 1982, Torinese di scuola Toniolo poi arruolato nel Gruppo Sportivo Fiamme Azzurre e quindi passato nelle poderose mani del maestro Janusz Pawlowski: un oro, cinque argenti ed un bronzo (Ostia 1999, aveva ancora 17 anni…) ai Campionati Nazionali Assoluti, due ori ed un argento ai Campionati Nazionali Juniores, bronzo all’Universiade di Bangkok e bronzo ai Mondiali Universitari di Mosca, Oro ai Mondiali Militari di San Pietroburgo per citare “qualche” risultato. Alessandro non è soltanto un atleta di professione: Alessandro è un filosofo, è uno sportivo a tutto tondo (si cimenta a 360 gradi, dal bungee jumping allo snowboard…), è un’artista, è uno scrittore. E’ del 2008 il suo primo Romanzo, “Dopo il punto cosa c’è.” ed è in uscita “Onirico Arbitrio” il suo “secondo incontro” con l’editoria.
 
 
Ciao Ale! Sei in forma per questo “secondo incontro”?
Ciao!! Beh in forma è un parolone! Diciamo che sono entusiasta, dai..

 
Mi sembra che il primo incontro sia stato un discreto successo…hai vinto di ippon?
Ho vinto di ippon non per il successo che ha avuto, che paragonato ad altri “incontri” di altri scrittori è direi ridicolo, quanto per la soddisfazione in sé di averlo combattuto. Come c’è scritto in “Onirico Arbitrio”: a volte quando si ha una meta l’importante non è raggiungerla, ma il percorso che si fa nel tentare di farlo…

 
Ci racconti qualcosa di questo nuovo romanzo?...e soprattutto: perché dovrei leggerlo?
Perché l’ho scritto io!!! Ovviamente scherzo.. Dovresti leggerlo se ti piace leggere, perché credo si possa trovare in ogni libro qualcosa, per quanto piccolo, di buono.
E’ un libro che parla del mondo onirico, il mondo dei sogni. E che ci fa capire che forse non c’è così tanta differenza tra l’insensatezza di quel mondo “di là” e quella del nostro mondo “di qua”. Arrivando a farci chiedere se la nostra realtà non potrebbe essere magari il sogno di qualcun altro.. In mezzo un sacco di accadimenti e amore e amicizia e belle parole e sorrisi ovviamente!! Se no che noia!

 
Ma quindi….“Chi sogna decide per intero le sorti di chi viene sognato?” Oppure…
Se così fosse non esisterebbe il libero arbitrio nei sogni. E invece penso che sia bello lasciare il dubbio e lasciare la possibilità, appunto, dell’onirico arbitrio…

 
“Onirico arbitrio” sarà presentato tra qualche giorno: cosa hai pensato per questo momento di lancio?
Ho organizzato il tutto assieme ad un mio amico musicista. Lui e un altro ragazzo suoneranno mentre io parlerò del libro. Sono davvero bravi, e sono dell’opinione che la musica dia sempre un tocco magico in più.

 
Ale, ma come succede che uno si sveglia una mattina e decide di scrivere un romanzo? Scrivere cosa significa per te?
Scrivere per me significa dare una forma concreta ai propri pensieri. E a volte quella forma concreta aiuta te stesso a capirli meglio e a ragionarci su.
Non so bene come succeda. A me nel caso specifico è successo perché scrivere mi piaceva un mondo, e mio fratello continuava a dirmi di scrivere un libro, così poi ne avremmo fatto un film e saremmo diventati ricchi! Parla sempre al plurale quando c’è da diventare ricchi…. La verità è che ti svegli una mattina e ti rendi conto che hai voglia di scrivere una storia che ti accorgi che hai in testa già da un sacco di tempo.

 
E..decidere di farsi leggere: perché? Qual è la sensazione che si prova a sapere che qualcuno legge qualcosa di TUO? E’ come sapere che qualcuno studia e tira il TUO Uchi-Mata?
E’ bello. Ma nello stesso tempo è rischioso. Se qualcuno studia e tira il tuo uchi-mata, ma poi si rende conto che per lui quel tiro non va bene, non gli piacerà e cambierà tecnica. Ma in fondo il bello è proprio quello, tutto è relativo e soggettivo.
Si decide di farsi leggere perché si spera che lo studio di quell’uchi-mata possa dare qualcosa al più grande numero possibile di persone. E perché così hai lasciato la tua firma nel mondo. C’è qualcosa di tuo. E se quel qualcosa di tuo riesce a regalare qualcosa a qualcuno, è meraviglioso.

 
Ale, sei un raro e fortunato esempio di come lo sport e la cultura possano trovare un punto di sintesi: judo e letteratura come si conciliano?
Con un po’ di sacrificio. Ma neanche così tanto. Si conciliano nella passione che hai per l’uno e per l’altra. E’ la passione per quello che fai che fa la differenza.

 
L’immagine del tuo più bel ricordo da atleta? E l’immagine dello scrittore?
Da atleta ce ne sono tante. Ma credo che la più bella sia l’ippon nell’ultimo incontro dei campionati italiani a squadre ad Asti nel 2005. Il primo titolo che abbiamo vinto con le Fiamme Azzurre. In finale contro i carabinieri. Il mio incontro ero lo spareggio decisivo per il titolo. E l’ippon ci ha regalato una vittoria storica. Era ed è una squadra che era formata da amici prima che da “colleghi”. Mi vengono ancora i brividi a pensarci.
E da scrittore senza dubbio il momento in cui è arrivato a casa lo scatolone con dentro le copie del mio primo libro. Che bello che è stato vedere e toccare un mio libro la prima volta.

 
Parliamo un po’ di judo…che idea ti sei fatto del panorama internazionale pre-olimpico? E i nostri italiani: come li vedi sulla strada di Londra?
Senza dubbio il livello in campo internazionale è altissimo. Il judo si è evoluto molto negli anni, e il regolamento viene rimaneggiato di continuo ormai. Ma credo che il livello in campo internazionale sia ad un livello eccelso. E in ogni categoria ci sono tre o quattro atleti che potremmo definire artisti judoka. Andare a vedere un torneo internazionale oggi, con le giuste competenze ovviamente, vuol dire partecipare ad un vero e proprio spettacolo.
I nostri atleti sono alle prese con un iter di qualificazione che rispetto a tanti altri sport è infinitamente più difficile. Questo, assieme all’aspetto monetario che sta subentrando, fa sì che il judo stia diventando uno sport sempre più elitario. Chi di loro parteciperà alle olimpiadi, se lo sarà meritato a pieno. E chi non ci riuscirà avrà fatto comunque qualcosa di grande. In bocca al lupo ragazzi!

 
Secondo te quali sono gli ingredienti necessari per una crescita del nostro sport in vista del prossimo quadriennio olimpico?
Un interesse enorme al settore giovanile senza dubbio. Un ricambio generazionale che possa garantire continuità al lavoro svolto fin’ora da atleti che hanno dato tantissimo. E chiarezza in tutto quello che non riguarda direttamente i ragazzi. Nelle “alte sfere” chiamiamole così. Ci vuole serenità e chiarezza, affinché si possa creare l’ambiente giusto in cui i ragazzi possano allenarsi al meglio.

 
Nel tuo percorso da atleta c’è stato anche il tempo diplomarti prima e di laurearti poi: è stato facile conciliare scuola e sport? Cosa diresti ai giovani judoka-studenti di oggi? E ai loro professori?
Se dicessi che è stato facile mentirei. Ma anche se dicessi che è stato incredibilmente difficile. Si può fare, si può fare tranquillamente. Basta impegnarsi un po’. La vita del judoka è costellata da sacrifici. Ma ai giovani judoka-studenti direi di pensare a quanto sono fortunati a fare quello che fanno. Hanno una vita diversa dai loro compagni di classe. Ma diversa in senso positivo. Diversa e alle volte più difficile, ma proprio per quello in senso positivo! Hanno qualcosa che gli altri non hanno. Qualcosa in più di davvero prezioso. E ai loro professori direi… di rassegnarsi! Che tanto se uno è judoka tutte le rotelle a posto non le ha, non c’è nulla da fare!

 
Per concludere, Alessandro Bruyère secondo Alessandro Bruyère: due parole per te?
Mi avvalgo della facoltà di non rispondere! Non mi è mai piaciuto “auto definirmi”. C’è sempre qualcuno pronto ad additarti come ipocrita o come finto modesto o come narcisista. Ai posteri l’ardua sentenza!

 
Un sogno e un obiettivo nello sport? E fuori dal tatami?
Nello sport il sogno è che lui, lo sport, quello vero però, continui sempre a far parte della mia vita. E fuori dal tatami di scrivere un best seller, farne un film, e diventare ricco (ricchi…..) ovviamente!!!

 
Dimenticavo: dopo il punto cosa c’è? Onirico arbitrio??
Eheheh.. Sì, senza dubbio c’è Onirico Arbitrio. Ma poi dopo il punto di Onirico Arbitrio ci sarà ancora qualcosa! In fondo dopo ogni punto c’è sempre qualcosa.

domenica 4 novembre 2012

La meraviglia che spunta dal caos


 

Capita, alle volte, che un viaggio che decidiamo di fare si rilevi lo specchio di ciò che abbiamo nell’anima.


E’ una di quelle cose che in fondo sai anche se non ci avevi mai pensato. Una di quelle cose che qualcuno ti dice e tu dici Sì ovvio come se lo avessi sempre saputo. Ma in fondo non ci avevi mai pensato.

Quando la persona che te lo dice lo fa in un salotto di una casa indiana, in un pomeriggio di pioggia a Varanasi, città colorata di colori e spiritualità, dopo averti sentito raccontare una storia, annuisci, dici Sì ovvio come se lo avessi sempre saputo ma in fondo non ci avevi mai pensato, sorridi e finalmente un po’ capisci perché sei lì.

Se nella tua anima, e di riflesso nella tua mente, che in fin dei conti se non esistesse una non potrebbe esistere l’altra, è il caos, nessun luogo al mondo potrebbe essere più adatto ad entrambe se non l’India.

L’india è il caos.

Ci metti un po’ a realizzarlo, quando arrivi. Esci dall’aeroporto di Delhi che è tardi, mezzanotte passata, e la tua guida cartacea ti consiglia di prendere un bus che ti porti fino alla stazione centrale di Nuova Delhi. Per scrupolo ti avvicini comunque a quel ragazzo in piedi vicino ai taxi per capire quanta differenza ci sia temporalmente e pecuniariamente tra le due soluzioni, e subito non ci fai caso che non gliel’hai chiesto tu ma è lui che ti ha informato direttamente sul taxi, pubblicizzando la tempistica e dimenticandosi  la pecunia. Col bus ci metteresti troppo, sir. Sì, è vero, ma probabilmente spenderei molto di meno. Accompagnato ancora dallo scrupolo di prima allora cerchi di capire da dove parta il pullman e ti sorprendi di trovar risposta così  facilmente. Però questa volta non ti sei accorto che è stato l’altro ragazzo, quello che si occupa di riscuotere la seppur minima tariffa del bus, che ti ha portato alla suddetta fermata e giocando con la tua stanchezza e la sua faciloneria ti ha accomodato sul sedile di quel pullmone che da fuori sembrava vecchio almeno come da dentro. Cinque minuti e si parte, sir.

Al fatto che, mentre cerchi di sfruttare la poca luce emanata da quella lampadina così consunta e stanca almeno quanto te per leggere sulla tua guida l’indirizzo della zona degli hotel da fornire a qualcuno che speri ti ci accompagnerà, il ragazzo che ti ha accomodato su quel sedile è a un metro da te che ti fissa, beh, a quello ci fai caso. Ma pensi sia una sua prerogativa, lo guardi interrogandolo con lo sguardo sul perché di quella radiografia che ti sta facendo e lui sorride e muove il capo, dondolandolo. Ci sono ancora così tante cose che non sai, dell’India.

Non lo puoi sapere, ancora, che lo faranno tutti, fissarti e ciondolare la testa a quel modo. Non ti sei ancora accorto di quanto quella cultura e quella società possano essere diverse dalla tua cultura e dalla tua società, non ne hai avuto il tempo. Hai in testa le nozioni di pagine che hai letto, immagini che hai visto, parole che hai sentito di chi ha esperito prima di te. Ma tanto lo sai quanto vivere un mondo sia diverso dal leggerlo, guardarlo attraverso qualcosa, sentirlo raccontare.

E’ vivendolo, un luogo, che ti entra nell’anima.

Ci si mettono il caso, gli eventi e la sorte, che dopo il viaggio in India non ti va proprio di chiamare sfortuna se riferita a te, a ingarbugliare la trama e a farti trovare alle tre e mezza del mattino non in una stanza d’albergo, seppur piccola e sporca, ma in una macchina che tenta di sfrecciare  alla volta di Jaipur. Non sai bene neanche tu come sia successo, ma per via del Giorno dell’Indipendenza indiana, l’orario folle e il fuso orario, la stanchezza sopra citata, un agente turistico anche se addormentato e furbo comunque disponibile, hai appreso che l’unica soluzione accettabile che avevi era acquistare questo “pacchetto” e affidarti a Rinku, giovane autista assonnato almeno quanto te e l’agente turistico, che ti avrebbe da contratto accompagnato alla scoperta del Rajastan, indirizzandoti infine, dopo quattro giorni di compagnia, verso Varanasi.

Sali in macchina nei sedili posteriori esausto e senza pensare a tutto ciò, deciso a guadagnare ore di sonno e ingannare quelle con le quali il viaggio di andata si sta prolungando.

E dopo qualche minuto il caos che finora hai visto negli eventi ti si presenta in tutto ciò che vivi. L’India.

Ci provi, a dormire, ma come fai? La strada è musicata ininterrottamente dai clacson delle macchine e dei camion che sembrano partecipare tutti alla folle corsa automobilistica verso Jaipur, in premio siori e siore un clacson tutto nuovo. Please Horn, recitano le scritte dipinte a mano sul didietro dei molossi stradali. Glielo chiederai poi a Rinku, il perché di quelle scritte, e la risposta sarà: Perché così  sanno dove sei e non ti schiacciano. Sei sdraiato per ora e ascolti solo. Non ci credi del tutto, alla situazione. Fai difficoltà a trovare una posizione che possa bloccarti e permetterti di toccare il meno possibile il sedile di quell’auto. Poco da fare, ognuno è figlio del luogo in cui vive. Sempre lei, la stanchezza, ti droga al punto da farti chiudere gli occhi sporadicamente, forse stai dormendo, il tempo e i chilometri e la veglia si mischiano senza che tu te ne accorga. Il caos ha deciso di presentartisi lentamente e per ora entra dal finestrino che un po’ apri per il caldo e un po’ chiudi per il vento. E ad un tratto la macchina è ferma, ti accorgi che stavi dormendo e ti tiri su. Rinku sta dormendo con un panno sul viso e i clacson sfrecciano là fuori. Ti guardi attorno e sei in una specie di area di sosta, immagini.

Non è tanto quello che credi essere un bar, o un negozietto in cui fanno bollire in un recipiente metallico del latte per farlo poi diventare chai, quel tè indiano delizioso, e neanche le persone che ci lavorano e ci dormono sul bancone e a terra, lì accanto, che catalizzano la tua attenzione. Sei già stato in giro per il mondo, su, e di bar impolverati e sporchi e persone strane e ne hai già visti parecchi, forse anche di più malmessi. No, non sono loro che la catturano, la tua attenzione, quanto dall’altro lato della macchina la mucca magra e enorme che ha la nuca praticamente appoggiata al finestrino e sembra guardarti. Ciao.

Quando dopo che sarete ripartiti lo racconterai a Rinku, della mucca, lui ti guarderà sorridendo come lo si fa ad un bambino e col passare delle ore ti accorgerai di quanto banale e ridicolo fosse il tuo racconto. Come lo potrebbe essere a casa tua il raccontare con sorpresa di aver visto un piccione attraversare la strada, o un bambino in un passeggino, o un parcheggio a pagamento. O un gesto ipocrita.

Rinku l’autista si sciacqua il viso da una pompa idrica a mano, di quelle che schiacci e l’acqua vien su da sotto terra, beve il suo chai di cui per ora ipotizzi il gusto, si rimette in macchina e ripartite. Sei accanto a lui ora, il sole ha fatto capolino da dietro l’orizzonte e comincia a illuminare un po’ il paesaggio. Alcune cose sono le stesse ovunque. Quelle che non dipendono da noi  soprattutto. Con o senza di noi a viverla e caratterizzarla la natura è una sola, inspiegabile e stupenda.

 

Sarà quel tuo primo viaggio verso Jaipur, ora che sei seduto accanto a Rinku, che ti presenterà l’India. La prima impressione è sempre la più difficile da gestire, che sia lei che conti o meno.

E così eccoti l’India servita là dietro al finestrino, mentre voli slalomeggiando tra mucche, capre, asini, cammelli e scimmiette e buchi e radici e cartacce che abitano la strada.

Da bravo figlio della società in cui vivi lo noti subito dopo gli animali, il degrado. Non vorresti chiamarla sporcizia per rispetto ad una cultura che non è la tua e non vorresti giudicare, ma non lo trovi un altro termine che renda l’idea. Il termine povertà lo dai erroneamente per scontato, senza badare al fatto che l’un termine non può non richiamare l’altro.

 

E poi veloci come stelle cadenti che appaiono nel buio del cielo stellato, i colori.

L’aspetto che da subito più ti affascina di questo nuovo mondo in cui sei capitato. Il risalto dei colori nel grigio del degrado.

I sari delle donne. Quelli delle bimbe. I turbanti degli uomini. Gli abiti dei sadhu. Le bancarelle. Le sciarpe. I dhaba, i gioielli e il cibo e le spezie e le camicie e gli animali e i templi.

Il giallo, l’arancione, il rosso, l’azzurro, il verde, il blu e il viola e il rosa e l’oro. Di un’intensità insensata. Di una bellezza disarmante.

Una tela grigia e bucherellata su cui un bimbo con una tavolozza dei colori più accesi in mano si diverte come un matto.

Bellissimo.

 

Ti sorprenderà per tutto il viaggio, questo contrasto. E arrivato dalla prima impressione ti accompagnerà in tutte le altre. Capirai che è da lì che nasce quel caos così peculiare. Dai contrasti.

Il tuo viaggio durerà un mese e tu e il tuo zaino viaggerete per centinaia e centinai di chilometri. Vedrai Kajuraho e Arga, rimarrai estasiato dinnanzi al Taj Mahal, dormirai in treno, ti sveglierai in stazione. Mangerai sul pavimento di un bazar di tessuti, noleggerai una moto, ti riparerai dalla pioggia sotto una tettoia assieme ad una mucca, sarai ospite in una casa indiana, scapperai da un torello che vorrebbe giocare con te, scivolerai nel gange, arriverai fino a Kolkata, lavorerai come volontario negli ospedali. Filosofeggerai con un padre di famiglia in un vagone del treno, conoscerai persone, assaggerai pietanze, andrai in montagna, visiterai templi e musei, vedrai Mussorie e Rishikesh, andrai al cinema, camminerai per chilometri, ospiterai nel tuo corpo un batterio che si divertirà col tuo stomaco e la tua salute, mangerai per strada e berrai litri di chai.

E il contrasto non mancherà mai. Lui, il contrasto,  e quel senso di vuoto che hai nello stomaco, non mancheranno mai. Ti manca qualcosa, dall’inizio. Qualcuno, per l’esattezza.

 

Un giorno di questo mese di questo viaggio in questa India scatterai una foto che ti farà capire meglio ciò che percepivi.  Sarai a Varanasi, quella città che già qualcos’altro ti aveva rivelato. Starai scendendo verso i ghat, quei gradini che fungono da moli e da spiagge del sacro Gange, da dove gli abitanti di Varanasi al mattino e alla sera scendono fino al fiume per immergervisi e pulirsi e purificarsi, nascondendo in quel gesto sempre lui, il contrasto: un atto di assoluta purificazione spirituale, ma anche corporale per molti, nell’acqua che tu e il tuo mondo non potete non ritenere una delle più sporche che avete mai visto.

Sarai lì in una di quelle viuzze di quel dedalo varasanese e uno dei tanti sadhu catturerà la tua attenzione. Il sadhu per chi se lo stesse domandando, ma anche per chi non lo stesse facendo in fondo, è un induista asceta che per raggiungere la liberazione dell’anima dedica la sua vita all’abbandono della società. Per farlo vivrà solo delle offerte che gli si faranno. Senza abiti e coperto da cenci, col magro viso incorniciato in una folta e lunga barba grigia o bianca, aspetterà seduto al suolo che qualcuno aiuti il proprio Karma offrendogli qualcosa. Uno di loro catturerà la tua attenzione si diceva, seduto ai piedi di una motocicletta enorme e colorata. Blu di carena e cromata di fiammeggianti aggeggi la motocicletta, pallido di stanchezza e arancione di cenci e bianco di barba il santone. La modernità e l’antichità. Una foto che per te per sempre rappresenterà la tua India.

Poco più avanti un ragazzo scalzo accucciato al suolo che starà consumando il suo pasto attingendolo da quel così classico piatto di metallo si pulirà la mano sui pantaloni che gli fungono da unico indumento, estrarrà  con due dita il telefono cellulare che gli sta suonando in quei pantaloni e incastrandolo tra spalla e orecchio risponderà a chi chissà da dove lo sta chiamando, senza smettere di imboccarsi.   

Più tardi pioverà e tu sarai in quel salotto di quella casa a Varanasi, e parlerai con quel ragazzo che ti dirà che alle volte un viaggio può essere lo specchio di ciò che abbiamo nell’anima.

Starai bene, in quella casa. Il padrone che affitta camere ad un prezzo irrisorio a viaggiatori provenienti da ogni angolo del globo ti farà sentire come a casa tua, ti racconterà dell’India  e ti chiederà della tua casa, e ti regalerà un po’ di vita indiana genuina in tutta la sua semplicità. Sarà una tappa stupenda, Varanasi.

La pioggia fuori e la tranquillità dentro, quel pomeriggio, avvolgeranno quel discorso e le tue sensazioni di qualcosa di bello.

Quando saluterai il ragazzo salirai in camera tua e disteso sul letto peserai a tutto ciò.

Ti dirai che fino a quel momento non eri ancora riuscito a capire bene tanto l’India in sé quanto i suoi caratteristici abitanti. Ma ciò che hai visto durante il giorno e ciò di cui hai appena finito di parlare hanno acceso una luce tra i tuoi pensieri. Ecco cos’era. Il contrasto. E quindi il caos. La modernità della colonizzazione e della globalizzazione che si mischiano senza soluzione di continuità con il fascino della tradizione e dell’antichità. Il mondo contemporaneo misto a quello dei primordi. Il vecchio spruzzato di nuovo. E il nuovo spruzzato di vecchio. E i milioni di abitanti in un paese immenso e povero solo perché lì dov’è. E la frenesia di tanti per sopravvivere e l’ascetismo di pochi per doverne fare a meno.  

Sarà in quel momento che ti verrà in mente quell’immagine, che per te sarà l’India.

Un giardino che un tempo era curato e bellissimo e rigoglioso. Lasciato andare a se stesso. Distrutto. Ma con fiori e piante incredibilmente belli al suo interno che più forti del tempo e delle intemperie  e del mondo hanno resistito e spuntano qua e là nella desolazione di quel giardino che potrebbe essere un paradiso.

La meraviglia che spunta dal caos.

Un tempio da rimanerci di fronte a guardarlo per ore che spunta dalle macerie di una città in cui i marciapiedi sono immondizia e le strade sono anche impianti fognari. Costruzioni di antiche dimore di antichi re che troneggiano su vie in cui l’inquinamento dovuto ai miliardi di motorisciò fa mancare il respiro. Cerimonie di tradizioni antiche come il mondo ambientate nel pazzesco traffico cittadino e usate come pretesto per ricevere soldi dai turisti. Il bianco dei denti di un sorriso di un bambino povero e lercio che cammina nudo per la strada a fianco di una capra con cui forse vive. Fiabesche cascate nascoste in una foresta a sua volta nascosta in un monte ai cui piedi una località turistica convoglia orde di occidentali affascinati dalla spiritualità che un tempo c’era e forse oggi non c’è più. Un abbraccio di un bambino disabile che vuole ringraziarti di essere andato lì e di avergli dedicato anche solo pochi secondi della tua vita più fortunata. Paesaggi che a provare a descriverli si risulta ridicoli intervallati da sterminate città troppo povere per non essere caratterizzate dal degrado sociale e paesaggistico.

 

Non vuoi giudicare nulla e nessuno, stai solo cercando di capire. Non stai assolutizzando nulla. Quella è la tua impressione, influenzata dalla prima e da tutto ciò che finora hai visto, e che poi vedrai. E influenzata da ciò che hai dentro. Tua, privata e personale.  Quella non è l’India per chiunque, è l’India per te, ora. Sei in viaggio, e quello è lo specchio della tua anima.

Ti guardi dentro, allora. E finalmente un po’ capisci.

Ciò di cui avevi davvero bisogno, ciò che cercavi disperatamente prima di partire, era una forma da dare al tuo malessere. Perché sei fatto così e non la sopporti quella sensazione. Ami troppo la vita per stare male e non riuscire a godertela, ma male ci stai, per quanti sforzi tu faccia. E non trovi quella forma che ti servirebbe per liberarti di quel malessere. E allora decidi di partire di nuovo, un altro viaggio, per cercare qualcosa che neanche tu sai cos’è. L’India si sceglie da sola, o forse la sceglie quella tua anima di cui è lo specchio in questo momento.

Ecco cos’era, maledizione, il caos.

Mille e un pensiero che vorticavano nella tua mente, in un momento in cui le tue decisioni avrebbero forse per la prima volta determinato seriamente la tua vita. Cambiamenti, soluzioni da trovare, scelte da fare. Non più per gioco o per divertimento, ma per indirizzare la tua vita in quello che sarà stato poi il suo futuro. Decidere che strada prendere, e percorrerla. Non erano i problemi di per loro. Non erano neanche problemi, basta guardarti intorno là in India un secondo, per capirlo. Era semplicemente il caos.

Ma il caos sconvolge tutto, ingarbuglia la trama, mischia i colori, nasconde le strade, confonde, fuorvia, ruba serenità.

Non sai cosa fare, non capisci neanche tu. Fatichi a decidere, prendi decisioni sbagliate. Fai casini. Ti scoppia la testa, stai male, non dormi o se dormi lo fai male e poco.

Fin quando incredibilmente rischi di perdere ciò che hai di più bello. Sbagli tutto. Fai soffrire la persona che hai sempre giurato di proteggere e curare e che ami davvero e che in futuro nel tuo viaggio in India ti mancherà più di ogni altra cosa. Ti ci allontani credendo, senza sapere come, di risolvere le cose.  Provi a tornare sui tuoi passi. Litighi con la tua famiglia e con tuo fratello, che è una parte di te. Sbagli ogni cosa che fai. E così ti accorgi che davvero qualcosa non va, che così non puoi andare avanti. Devi ritrovare la tua serenità, o rischi davvero di mandare tutto a puttane.

Devi fare qualcosa, e trovi nell’India quel qualcosa. Non lo sai ancora, ma quel viaggio sarà lo specchio della tua anima.

Il contrasto. La meraviglia che spunta dal caos.

 

Le leggende e la particolarissima religione induista vedono il mondo creato e governato da tre dei. Brahman è il dio della creazione; Shiva è il dio della distruzione; Vishnu è il dio della conservazione e dell’equilibrio. Perché ci siano pace e serenità, per gli induisti, devono per forza esserci sia la creazione che la distruzione. Sia il bene che il male. A patto che siano ben equilibrati. La connivenza dei tre dei, dei tre elementi, fa sì che il mondo possa esistere e che in esso possa regnare la pace. Il male non è male in sé, ma un aspetto dell’essere.

Sarà passato un mese, dalla tua partenza. Una brezza leggera entrerà dal finestrino della macchina che hai preso a noleggio all’aeroporto. Sei tornato da pochissimo, giusto il tempo di ritirare il bagaglio e firmare le scartoffie per il ritiro dell’auto. Quella persona che provocava quel vuoto è a casa, in una città che non è quella in cui vivi tu. Sa che tornavi oggi, vi siete sentiti sempre da laggiù, anche se nel vostro tono, nelle parole in cui vi scrivevate, nei pensieri che facevate, c’era inevitabilmente sempre un briciolo di tristezza. La vostra estate avrebbe dovuto essere diversa, prima che tu impazzissi e decidessi di sacrificarla per cercare le tue risposte. Sa che tornavi oggi ma non ti aspetta, perché sarebbe troppo difficile vedersi oggi, i suoi impegni, i tuoi imminenti che ti aspettano da un mese,  la distanza tra le vostre città, soprattutto tutte quelle ore del tuo viaggio. Secondo i patti, vi vedrete tra qualche giorno, finalmente. Ma tu proprio non ce la facevi a non vederla subito e non darle almeno un bacio. E allora ti affidi ancora alla pazzia e per prima cosa corri da lei, per darle quel bacio, sorriderle, dirle che andrà tutto bene e quanto ti è mancata, quanto bene ti facesse saperla a casa ad aspettarti, e tornare alla tua vita, che anche lei è un mese che ti aspetta. E che vuoi sistemare un pezzetto alla volta.

Ma tanto ormai è di nuovo con te, la tua serenità. Era lì che ti aspettava, al tuo ritorno. Forse dovevi davvero andartene per capirlo. E’ il tuo mondo la tua serenità. Con i suoi, Shiva, Brahman e Vishnu.

E tu ormai hai in testa quel pensiero che non vedi l’ora di rivelare alla persona che tra qualche minuto abbraccerai. Quel pensiero che un viaggio forte e memorabile e immenso, in un luogo affascinante e senza eguali, ti ha regalato.

 Che alle volte il caos è necessario per capire ciò che di meraviglioso c’è.
 
 
 
 
 
 
Questo "racconto", partecipa al concorso letterario "Fogli di viaggio 2012", indetto in onore del grande Tiziano Terzani, giornalista e viaggiatore. Sezione A: Ogni posto è una miniera. Max 20000 battute.

 

giovedì 25 ottobre 2012

Lo Zen e le arti marziali.

Ultimo capitolo della mia tesi di laurea: "La Via sotto i piedi". Febbraio 2012





3. 1. Lo Zen 
 
La parola Zen, è una parola di cui oggigiorno si tende ad abusare. In realtà il breve termine indica qualcosa che va ben oltre le conoscenze di chi nella cultura contemporanea lo usa nei campi più disparati.

Come molte altre parole della filosofia e della religione orientale, “Zen non ha un equivalente esatto in altre lingue. Sappiamo che è una parola giapponese, che deriva dal cinese Ch’an, a sua volta trascrizione del sanscrito Dhyana, di solito tradotto con “meditazione”. Ma questa risulta essere una traduzione non del tutto adeguata, perché in occidente “meditazione” significa generalmente profondo pensiero e riflessione, mentre, nello Yoga da cui deriva, il termine Dhyana è uno stato di alta coscienza in cui l’uomo giunge a fondersi con la realtà suprema dell’universo.[1] Lo stesso vale per Ch’an e Zen, con la differenza che mentre lo yogin, colui che segue la pratica yoga, si apparta fuori dal mondo per meditare in solitudine, i seguaci dello Zen vivono in una comunità monastica in cui maestro e discepoli  condividono le attività. Nello Zen non c’è infatti nulla di ultraterreno, è un atteggiamento della mente applicabile tanto ai lavori più materiali e umili quanto alle funzioni religiose.

Secondo la tradizione il Buddha affermava che la sua dottrina intendeva mostrare solo la Via verso il Risveglio. Ma, come dice Alan W. Watts, “i seguaci del Buddha hanno cercato l’Illuminazione nel dito, invece di andare in silenzio verso il luogo che esso indica.”[2]

Lo scopo che si propone la scuola buddhista Zen, che ritiene il Risveglio qualcosa di vivo che non può essere irrigidito in parole, è di penetrare oltre le speculazioni e le definizioni per riportare in vita la visione originale del Buddha. Concetto fondamentale dello Zen risulta essere la compresenza di samsara e nirvana, e il fatto che cercare il secondo fuori dal primo è assurdo e inutile. Il nirvana per lo Zen è qui e ora, nel mezzo del samsara, e non c’è dubbio che sia uno stato di unità contrapposto alla molteplicità.

Il saggio vedrà subito il nirvana nelle cose più comuni; un insensato vorrà filosofeggiare su di esso e lo penserà come se fosse qualcosa di diverso.[3]

Si nota  come l’immediatezza sia un carattere fondamentale del Buddhismo Zen. Nella sua concezione la vita si muove troppo rapidamente perché ci si possa accostare per tentativi. Mentre ci si prepara faticosamente a raggiungere il Risveglio, la verità immediata continua a scorrere via. Ma va sottolineato che non viene così abbandonata la concezione di “Via”, e che questa viene solo interpretata in altra maniera. Alan Watts a questo proposito scrive metaforicamente che il discepolo Zen viene contrapposto a chi indugia sulla riva del fiume domandandosi quale sia il modo migliore di tuffarsi, sentendo la temperatura dell’acqua e chiedendosi come ci starà poi dentro, abituandosi a procrastinare le cose. Egli deve piuttosto camminare tranquillo fino al margine del fiume e lasciarvisi scivolare con calma, senza darsi il tempo di avere timori su ciò che sarà, o di trovare scuse per non buttarsi subito.

Questa mancanza di opposizione, questo lasciarsi  trasportare dal fiume della vita, deriva dall’insegnamento taoista del wu-wei, il segreto di dominare le circostanze senza opporvisi. Essendosi diffuso nella Cina taoista il Buddhismo Zen ha assorbito alcune caratteristiche del Taoismo. Assieme al carattere umoristico che alleggerisce entrambe le dottrine, questo aspetto della non-opposizione positiva è senza dubbio l’aspetto che più le accumuna. Tanto che lo Zen è stato spesso definito come un “andare avanti dritto”, perché esso è muoversi con la vita senza cercare di interrompere il suo scorrere; è una consapevolezza immediata delle cose nel loro vivere e muoversi. Grazie a questa adesione alla vita il discepolo Zen, che mantiene il passo con lei, la comprende ed è sempre pieno di meraviglia, perché ogni cosa è perpetuamente nuova. [4]

Una critica più volte mossa allo Zen, in ambito del suo carattere non-oppositivo, arriva da chi si chiede se nell’accettare tutti gli avvenimenti, buoni o cattivi, come manifestazioni della natura-Buddha, non si incorra nel pericolo di fare in modo che tutte le azioni possano essere giustificate, inciampando in una sorta di banale libertinismo. Ma lo Zen risponde implicitamente a questa critica, non permettendo a nessuno che si sia prima adattato a una profonda disciplina morale di intraprendere la sua pratica. Perciò i maestri Zen hanno sempre insistito sulla necessità di un severo addestramento preliminare alla pratica dei loro insegnamenti.

Questo severo addestramento porta a radicalizzare nello Zen aspetti che lo accomunano a  molte altre religioni e filosofie. Le idee di povertà, di libertà, di adesione alla realtà che lo caratterizzano si ritrovano infatti nel Taoismo, nel Vedanta, nel Sufismo, ma anche in branche del Cristianesimo. Ciò che di diverso ha lo Zen è il metodo. E questo metodo è ciò che ha permesso allo Zen, a differenza di quasi tutte le altre religioni e filosofie,  di tenere vivo lo spirito dei suoi primi seguaci fino ad oggi. A distanza di più di 1400 anni questo spirito non è degenerato in un mero “filosofismo” né in una formale osservanza di precetti di cui si è perso il significato. I fattori  che formano questo metodo sono due, e sono inseparabili. Il fatto che l’esperienza spirituale dello Zen è così precisa da essere inconfondibile, e il fatto che il metodo che insegnano i maestri non può avere che un unico risultato, l’esperienza spirituale diretta.

Il primo dei due fattori è noto con il nome di satori, il secondo con quello di koan. Il satori  consiste nel rendersi improvvisamente conto della verità dello Zen. Questa esperienza improvvisa è spesso descritta come un rovesciarsi della mente, simile al rovesciarsi di una bilancia su uno dei cui piatti si sia ammucchiato un peso superiore a quello dell’altro piatto. Generalmente si verifica dopo un lungo e concentrato sforzo diretto a scoprire il significato dello Zen. Le descrizioni di chi dice di averlo provato sono molteplici e vivaci, ma sono tutte accomunate dalla concezione che la rigida struttura in cui l’uomo vede di solito configurata la vita si frantuma improvvisamente, e ne viene un senso di sconfinata libertà. La prova del vero satori sta in questo, che chi lo sperimenta non ha il minimo dubbio sulla pienezza della sua liberazione.

Secondo i maestri, mentre il satori è la “misura dello Zen”, perché senza di esso non può assolutamente esserci Zen, il koan è la misura del satori. Letteralmente koan significa “documento pubblico”, ma ha assunto il significato di una forma di problema basato sulle azioni e sui detti dei maestri. E’ un problema che non ammette una soluzione intellettuale e la risposta spesso non ha alcun rapporto logico con la domanda.

Eccone un esempio:

Molto tempo fa un uomo teneva un’oca dentro una bottiglia. L’oca crebbe e crebbe finché non poté più uscire dalla bottiglia; l’uomo non voleva rompere la bottiglia e neanche far male all’oca; tu come te la caveresti?[5]

A prima vista i koan possono sembrare sciocchezze prive di senso. Ma in realtà tutti contengono qualcosa che somiglia ad un dilemma; si propone la scelta fra due alternative egualmente impossibili. Così ogni koan riflette il koan gigantesco della vita, giacché per lo Zen il problema filosofico della vita è di superare due alternative dell’affermazione e della negazione, che oscurano entrambe la verità. A molti studiosi occidentali la meditazione Zen, che si basa appunto sul lavorare sui koan, sembra scadere in una forma di auto-ipnosi, il cui scopo sarebbe di raggiungere uno stato di trance, additandola come “quietismo” o “pigro fantasticare”. In realtà è vero esattamente l’opposto. Lungi dall’essere qualcosa di quieto e pigro, anzi caratterizzato da un forte attivismo, lo studio dei koan richiede il più impegnato sforzo mentale e spirituale, e lo Zen mira a controllare e a sorpassare l’intelletto. E’ un mezzo per passare attraverso una barriera. Usando le parole dei maestri Zen è un mattone che serve per battere alla porta; quando la porta è stata aperta il mattone si può buttare via; e questa porta è la barriera che l’uomo innalza fra se stesso e la libertà dello spirito. Quando, con il satori, questa porta si apre, il discepolo non raggiunge uno stato di trance, ma un nuovo atteggiamento verso la vita.

Questo percorso spirituale fatto a cavallo della ardua meditazione sui koan, avviene all’interno dei monasteri in cui i discepoli si riuniscono alla ricerca della verità. Questo raccogliersi in comunità monastiche arriva allo Zen dalla tradizione buddhista, il cui primo Ordine (sangha) di monaci fu fondato dal Buddha Gotama dopo aver raggiunto il Risveglio. L’evoluzione della comunità Zen nella sua forma odierna deve essere fatta risalire al maestro Po-chang (in giapponese Hyakujo), morto nel 814 d. C. Egli comprese la necessità di creare istituzioni monastiche differenti da quelle che esistevano al suo tempo, diventate troppo contemplative e poco curanti alla tradizione; questa le avrebbe volute semplici e povere, parsimoniose e intente a evitare lo spreco delle offerte, mentre in realtà erano popolate da monaci lascivi e pigri. Per Po-chang era essenziale che i suoi seguaci non rifiutassero di partecipare alle comuni fatiche degli uomini. Se volevano aiutare la società ad applicare il Buddhismo alla vita quotidiana, non avrebbero ottenuto molto finché i maestri riconosciuti del Buddhismo fossero rimasti estranei a quella vita. Po-chang stabilì così una serie di regole e precetti per una comunità di pura ispirazione Zen e su questo lavoro, conosciuto con il titolo di Po-chuang Ching-kwei, si è basata da allora in poi la vita monastica del Buddhismo Zen.

Il primo principio della sua regola è che “un giorno senza lavoro è un giorno senza cibo”, lo spreco di tempo e di cose materiali è ridotto al minimo e ciò che possiede il monaco è tanto poco da bastare a fare un cuscino su cui dorme la notte. Tutto questo non perché l’ideale dello Zen sia l’ascetismo. Lo Zen è piuttosto un atteggiamento verso la vita, e come tale crede che sia bene usare proprio quel tanto di tempo, di energia e di materiale che è necessario per ottenere un dato scopo, né più né meno.

La giornata del monaco Zen si alterna tra attività specificatamente religiose, in cui i discepoli e i maestri meditano sulle antiche scritture, lavorano sui koan e ne producono di nuovi, e attività di lavoro necessario per mandare avanti il monastero. Ma per lo Zen anche questo lavoro materiale è un lavoro specificatamente religioso, nel suo compenetrarsi di filosofia e religione. Dal punto di vista della natura-Buddha, nessuna attività è più religiosa di un’altra. Perciò lo Zen scopre un valore religioso nelle faccende quotidiane e insiste su questa scoperta, perché usualmente gli uomini cercano la religione fuori dalla vita ordinaria. Nella letteratura Zen sono innumerevoli i riferimenti alla scoperta del satori nel lavoro di ogni giorno.

In conclusione va sottolineato e rilevato che non tutti i monaci rimangono per tutta la vita in un monastero. Dopo aver ottenuto la qualifica di maestri possono scegliere se accettare la cura di un’altra comunità o tornare alla consueta vita nel mondo, oppure, come scrive A.Watts

diventeranno insegnanti della Legge senza dimora, e viaggeranno da un luogo all’altro aiutando quelli che incontreranno durante il cammino. L’ideale del Bodhisattva non è infatti di rimanere fuori dal mondo, anzi, è quello di essere nel mondo, pur senza appartenere ad esso.[6]

Emerge così ancora una volta, nell’ideale del monaco Zen  che raggiunto il suo scopo si mette nuovamente in cammino animato da una nuova meta, il carattere dinamico del Buddhismo, che non trova mai un punto d’arrivo definitivo, e che fa del percorso e della Via l’essenziale dell’esistenza e terrena e spirituale.[7]


 


3.2. Le arti marziali

Lo Zen esercita in Giappone un influsso decisivo su tutte le arti. Alcune sono specificatamente Zen, anche su un piano storico, come la cerimonia del tè, l’arte di disporre i fiori, l’arte dei giardini. Altre furono profondamente trasformate, ricreate dallo Zen, e tra queste spiccano le arti marziali.

Quando lo Zen giunse in Giappone, il paese era dilaniato da guerre civili, violenze, massacri. Fu lo spirito Zen a trasformare le tecniche brutali della guerra in arti che avevano come fine non l’efficacia bellica, ma la ricerca di sé, il perfezionamento interiore di chi le praticava. Il combattimento divenne puramente spirituale, il nemico fu individuato in se stessi, nelle illusioni dell’ego che impediscono all’uomo di vedere la sua vera natura, e che si devono implacabilmente distruggere. In virtù di questa influenza nacque il Bushido, insieme di principi morali, codice d’onore, disciplina cavalleresca che ha come fine il perfezionamento delle qualità fisiche e morali dell’uomo. Fu per questo che lo Zen venne denominato “la religione del samurai” e il Bushido “la Via del guerriero”.

Il termine che designa le arti marziali in Giappone è Budo. La parola è formata da due ideogrammi, Bu e Do, che come consuetudine nella lingua giapponese hanno entrambi un proprio significato presi singolarmente. L’ideogramma Bu si può tradurre con “interrompere, arrestare la lotta”; l’ideogramma Do è quel filo d’Arianna che ci ha portato fin qui: la “Via”.[8] Il concetto di Do riveste un ruolo da protagonista nelle arti marziali di derivazione giapponese, accompagnandole tutte: esse sono Vie per conseguire qualcosa. Troviamo così il ken-do, la Via della spada, il karate-do, la Via della mano aperta, l’aiki-do, la Via che conduce all’armonia con l’energia vitale, il kiu-do, l’arte del tiro con l’arco e infine il ju-do, la Via dell’armonia e della cedevolezza.[9]

Così Budo, il termine che come abbiamo visto le racchiude tutte, si può tradurre come "Via che conduce alla cessazione della guerra attraverso il disarmo" oppure "Via che conduce alla pace", poiché nel Budo non si tratta solo di competere, ma di trovare la pace e il dominio di se stessi.

Sin dagli albori della sua storia l’essere umano ha desiderato superarsi, aspirando a raggiungere la più grande forza, ma anche la più grande saggezza. E il Budo è il metodo che in Giappone si segue per tentare di raggiungere questo scopo. Ma a questo metodo è indispensabile qualcosa che aiuti a unificare forza e saggezza, e questo fattore unificante è lo Zen. Il Budo ha prodotto una tecnica superiore trasmessa da maestro a discepolo, il waza, che risale all’epoca dei samurai e che implica un potere al di là della forza propria dell’individuo. Lo Zen da parte sua ha creato un’altra tecnica superiore che non soltanto conferisce forza fisica e mentale, ma apre anche la via a una saggezza simile a quella del Buddha: lo zazen. Questa tecnica consiste nel rimanere seduti in meditazione nella postura tradizionale, ma anche nel camminare, nello stare in piedi, nel respirare correttamente. E’ un’attitudine mentale, un’educazione profonda.

Ripercorrendo la storia del Bushido, troviamo le sue origini nella fusione che avvenne in Giappone tra Shintoismo e Buddhismo. Quest’ultimo, nonostante l’influenza reciproca, lo ha determinato tramite cinque aspetti fondamentali: l’acquietamento dei sentimenti, l’accettazione serena di fronte all’inevitabile, la padronanza di sé in qualsiasi circostanza, la maggiore identità con l’idea della morte che con quella della vita e la pura povertà.

Come un vero e proprio percorso, il Budo si può suddividere in tappe progressive. Ne riconosciamo essenzialmente tre, che possiamo assimilare a quelle dello Zen. La prima corrisponde ad un periodo di pratica; la seconda è quella della concentrazione senza coscienza; la terza quella in cui lo spirito attinge la vera libertà. In quest’ultima tappa il discepolo diventa maestro.

Lo Zen e il Budo si compenetrano l’un l’altro. Taisen Deshimaru, un famoso maestro Zen autore oltretutto di molti libri sull’argomento, in “Lo Zen e le arti marziali” scrive a proposito:

ho così compreso, a poco a poco, che le arti marziali e lo Zen hanno un unico sapore, e che la medicina orientale e lo Zen costituiscono un’unità. Kodo Sawaki diceva che il loro segreto è KYU SHIN RYU, l’arte di dirigere lo spirito.[10]

Con il concetto dell’arte di dirigere lo spirito, ci riallacciamo alla filosofia buddhista, e notiamo come ci si stia muovendo all’interno della concezione buddhista della nostra unica natura originaria. Seconda questa concezione quando si considerano i fenomeni di tutte le esistenze attraverso le illusioni, possiamo ritenere, sbagliando secondo il Buddhismo, che la loro natura originaria sia dipendente e mobile. Ma divenendo intimi con il nostro spirito, grazie all’ardua disciplina delle arti marziali al pari di altre vie indicate dal Dharma, ritroviamo la nostra natura originaria e riusciamo a comprendere che tutti i fenomeni e tutte le esistenze sono in noi stessi, e che ugualmente accade a tutti gli esseri. Ecco come il Budo si assimila perfettamente al Butsudo, la Via del Buddha.

Il segreto delle arti marziali consiste dunque nell’imparare a dirigere lo spirito. In un combattimento di arti marziali infatti il nostro spirito non deve lasciarsi influenzare da nessun azione e movimento dell’avversario. Si deve sempre muovere liberamente e deve sempre essere pronto a cogliere il gesto immediato, l’occasione, l’opportunità, quella che nello Zen è il satori, l’Illuminazione immediata. E a questo scopo che risulta fondamentale lo zazen, ciò che nello Zen rappresenta la meditazione, condizione mentale in cui la prerogativa consiste  nel non tentare di afferrare i pensieri, ma di lasciarli scorrere. Taisen Deshimaru scrive:

-Il riflesso della luna sull’acqua del fiume non si muove, non scorre. E’ solamente l’acqua che passa-. Durante zazen lasciate scorrere i pensieri. Potrete trovare così la sostanza dell’ego. […] Alla fine lo spirito sarà puro come la luna, come il riflesso che rimane fermo sull’acqua del fiume. […] Fate zazen e raggiungerete il satori. Non si può comprenderlo, coglierlo. Nessuna mano ha mai potuto cogliere il riflesso della luna sull’acqua.[11]

Va precisato che lo zazen non è concepito da chi lo pratica né come una semplice meditazione intesa come un pensiero profondo, né come un’esperienza misteriosa, né come una mortificazione del corpo. E’ una pratica che mira a ritornare integralmente alla pura condizione normale dell’uomo, condizione che non è riservata ai grandi maestri o ai santi. E’ senza misteri e alla portata di tutti. E’ nella concezione Zen divenire intimi con se stessi, ritrovare la propria natura, armonizzarsi con la vita universale.

Questo è cioè che avviene nelle arti marziali. In quelle che indossano gli abiti tradizionali ed affascinanti del Budo,  ma di riflesso inevitabilmente anche in quelle che indossano gli abiti multicolori e frenetici dello sport moderno.



 
3.3. Il Judo

 Judoka dall’età di quattro anni, ho fatto del judo la mia vita. Questo è il motivo principale che mi ha spinto ad inoltrarmi in questa dissertazione, con lo scopo di riallacciare in toto i miei interessi, e di fondere in un unico corpus mente e corpo: la filosofia e il judo.

E in quanto judoka occidentale, ho potuto toccare con mano la differenza che intercorre tra un’arte marziale intesa come Via, e un’arte marziale intesa come Sport. In realtà il confine non è così netto come potrebbe sembrare, e come l’acqua del mare bagna la spiaggia in cui viene assorbita per poi fluire indietro e prepararsi a bagnarla di nuovo, così il Do, la Via, invade di continuo, seppur nascostamente, la concezione di sport e teatro in cui le arti marziali, soprattutto in Occidente, sembrano essersi trasformate.

Grazie al judo possiamo notare uno degli aspetti più affascinanti ma anche paradossali dello Zen, la capacità di combinare la pace del nirvana con l’intensa attività della battaglia e le attività comuni della vita quotidiana. Ju-Do è la Via della cedevolezza, “l’arte gentile”. Un metodo di auto difesa senza armi, che si basa sul principio di sconfiggere l’avversario cedendogli e usando contro di lui la sua stessa forza. Secondo un’antica leggenda fu scoperto da qualcuno che guardava la neve cadere sui rami degli alberi. I rami di quelli rigidi e possenti, come la quercia, si spezzavano sotto il peso della neve che piano piano si accumulava, mentre i rami sottili e elastici, come quelli del salice, si piegavano sotto il peso della neve facendola scivolare via, senza farsi rompere né curvare.

Lao Tzu, il fondatore del taoismo, scriveva:

quando nasce, l’uomo è tenero e debole, quando muore è rigido e forte. Rigidità e forza accompagnano dunque la morte, morbidezza e debolezza accompagnano la vita.[12]

Notiamo così che nel judo emergono non a caso i due principi fondamentali dello Zen, quello del wu-wei, la non-opposizione e quello dell’ “andar avanti dritto”, che si esprime nell’immediata successione di difesa e attacco. Se grazie al wu-wei il judoka impara a non contrastare la forza dell’avversario con la propria, ma a sfruttare quella forza per far cadere il suo opponente, grazie al principio dell’ “andar avanti dritto” impara a non lasciare tra il movimento della difesa e quello dell’attacco il più piccolo intervallo. L’immediatezza del gesto implicita nell’intuizione che permette di unire i due movimenti, senza arrestarsi. Immediatezza che si può facilmente ricollegare a quella del satori nella pratica dello Zen.

Scrive Taisen Deshimaru:

La vittoria o la non-vittoria, la vita o la non vita si decidono nell’istante”[13]

Questo principio, oltre ad evidenziare la concezione che vede nell’arte marziale uno specchio della vita, ci offre un ottimo spunto per quella differenza tra arte marziale e sport citata in precedenza. Se per la prima la disciplina è vista appunto come un’allegoria della vita quotidiana, in cui non si può vincere o essere vinti  ma solo vivere, perché non esiste il tempo per pensare, ma solo quello dell’istante per agire, per l’altro la vittoria o la sconfitta assurgono a principi fondamentali per la pratica di tale disciplina. La differenza sta nello spirito di competizione che anima lo sport moderno, che mira a sconfiggere gli avversari, piuttosto che ciò che nell’individuo stesso si oppone alla propria vita nella ricerca della propria vera natura. Ma in entrambi i casi si tratta ad ogni modo di una lotta, di un combattimento. E’ lo scopo che è diverso.[14]

Jigoro Kano, colui che nel 1882 fondò il judo in un piccolo dojo[15]a Tokyo, insegnava che:

solo dopo aver tanto combattuto, così da arrivare al di là della nozione di vittoria e di sconfitta, si aprono le porte di una visione d' amore nella vita.[16]

Come il Buddha indicava la strada da percorrere ai suoi discepoli, che seguendo la sua dottrina avrebbero raggiunto la meta agognata, così il maestro di arti marziali indica ai suoi discepoli il percorso da compiere, non per raggiungere la vittoria in un combattimento, ma per comprendere a fondo il proprio spirito.

Il Budo si è infatti sviluppato sin dalle sue origini in relazione diretta con l’etica, la filosofia e la religione. Tutti gli antichi testi di Budo che ci sono stati trasmessi sviluppano una riflessione intellettuale sull’ego e sullo spirito. E fin dopo l’ultima guerra, il Bushido, quel codice di cui si è accennato in precedenza, era l’essenza dell’educazione giapponese; i maestri impartivano a tutti un’educazione sia militare che civile. E questo avveniva per ricercare quell’armonia che nella tradizione taoista scaturisce dalla perpetua e necessaria contrapposizione degli opposti: lo yin e lo yang. Perché ci sia il buio ci deve essere la luce. Perché ci sia il giusto ci deve essere lo sbagliato. Perché ci sia il femminile ci deve essere il maschile. E nella cultura giapponese la letteratura, la filosofia, la poesia, la stessa cultura hanno un carattere femminile, mentre il Budo, l’insieme delle arti marziali, è maschile. Non possono esistere separatamente e tra loro deve sempre regnare l’armonia.

Ecco perché le arti marziali, di cui il judo è uno degli esempi più brillanti di fusione di spirito e corpo, rivestono un ruolo determinante nella cultura giapponese. In esse si è trovato il modo di armonizzare la vita degli individui, che grazie alla costante pratica, alla ripetizione degli esercizi, alla meditazione e alla consapevolezza del proprio corpo, riescono ad “allenarsi” alla vita. E in questo modo imparano ad avvicinarsi a comprenderla, imitando in tutto e per tutto i filosofi che da millenni percorrono ognuno in modo differente quella Via che ricerca la comprensione, mossi dall’amore del sapere.

E’ per questo che nel descrivere il judo lo si può chiamare, come d’altronde usualmente avviene, una filosofia di vita.  Sia che lo si pratichi come sport, che come arte marziale tradizionalmente concepita. Il senso va adattato al mondo che ci circonda. E anche se in tempi antichi era più facile riconoscere la Via che indicava, quella Via ancora oggi è lì nascosta.

Qualsiasi siano il contesto in cui ci troviamo e il percorso che decidiamo di compiere, la Via è sotto i nostri piedi.



[1] Nel Buddhismo i Dhyana sono i quattro stadi di meditazione attraverso cui la mente arriva alla completa purezza necessaria per raggiungere l’Illuminazione.
[2] Si veda A. W. Watts. Lo Zen, Un modo di vita, lavoro e arte in Estremo Oriente, Bompiani, Milano, 2010, p.20.
[3] Si veda A. W. Watts, Lo Zen…cit., p.28.
[4] Si veda per l’argomento trattato T. Izutsu, La filosofia del buddhismo Zen, Ubaldini, Roma 1984, passim.
[5] Esempio di Koan tratto da  Alan W. Watts, Lo Zen…cit., p.65.
[6]   Si veda A. W. Watts, Lo Zen…cit., p. 93.
[7]  Si veda per l’argomento trattato T. Deshimaru, Lo zen passo per passo, Ubaldini, Roma 1981, passim.
[8] Bushido è una parola formata con l’aggiunta dell’ideogramma shi, che unito all’ideogramma Bu forma la parola Bu-shi: guerriero.
[9] Questo ruolo da protagonista non si arresta solo all’ambito delle arti marziali, ma si estende ad ambiti altri e più elevati. Il Butsu-Do è in Giappone la Via del Buddha, quella Via trattata fin qui che permette di scoprire la propria natura originaria e raggiungere il Risveglio.
[10] Si veda T. Deshimaru, traduzione dal francese di Fausto Taiten Guareschi, Lo Zen e le arti marziali, SE, Milano 1995, p. 24.
[11] Si veda T. Deshimaru, Lo Zen e le arti…cit., p.59.
[12] Si veda A. W. Watts, Lo Zen…cit., p. 112.
[13] Si veda T. Deshimaru , Lo Zen e le arti…cit., p. 31.
[14] Si veda per l’argomento trattato E. Degl’Innocenti, M. Rebasti, Storia e filosofia del judo, Ko-sen dojo, Firenze 1996, pp. 72-77.
[15] Il dojo è il luogo in cui ci si applica alle arti marziali, parola anch’essa di derivazione buddhista, in quanto nei monasteri buddhisti zen, il Semmon Dojo è la Sala della meditazione in cui ha il suo centro la vita della comunità.
[16] Si veda J. Kano, La mente prima dei muscoli gli scritti del fondatore del judo,  Mediterranee, Roma 2011, p. 10.