giovedì 25 ottobre 2012

Lo Zen e le arti marziali.

Ultimo capitolo della mia tesi di laurea: "La Via sotto i piedi". Febbraio 2012





3. 1. Lo Zen 
 
La parola Zen, è una parola di cui oggigiorno si tende ad abusare. In realtà il breve termine indica qualcosa che va ben oltre le conoscenze di chi nella cultura contemporanea lo usa nei campi più disparati.

Come molte altre parole della filosofia e della religione orientale, “Zen non ha un equivalente esatto in altre lingue. Sappiamo che è una parola giapponese, che deriva dal cinese Ch’an, a sua volta trascrizione del sanscrito Dhyana, di solito tradotto con “meditazione”. Ma questa risulta essere una traduzione non del tutto adeguata, perché in occidente “meditazione” significa generalmente profondo pensiero e riflessione, mentre, nello Yoga da cui deriva, il termine Dhyana è uno stato di alta coscienza in cui l’uomo giunge a fondersi con la realtà suprema dell’universo.[1] Lo stesso vale per Ch’an e Zen, con la differenza che mentre lo yogin, colui che segue la pratica yoga, si apparta fuori dal mondo per meditare in solitudine, i seguaci dello Zen vivono in una comunità monastica in cui maestro e discepoli  condividono le attività. Nello Zen non c’è infatti nulla di ultraterreno, è un atteggiamento della mente applicabile tanto ai lavori più materiali e umili quanto alle funzioni religiose.

Secondo la tradizione il Buddha affermava che la sua dottrina intendeva mostrare solo la Via verso il Risveglio. Ma, come dice Alan W. Watts, “i seguaci del Buddha hanno cercato l’Illuminazione nel dito, invece di andare in silenzio verso il luogo che esso indica.”[2]

Lo scopo che si propone la scuola buddhista Zen, che ritiene il Risveglio qualcosa di vivo che non può essere irrigidito in parole, è di penetrare oltre le speculazioni e le definizioni per riportare in vita la visione originale del Buddha. Concetto fondamentale dello Zen risulta essere la compresenza di samsara e nirvana, e il fatto che cercare il secondo fuori dal primo è assurdo e inutile. Il nirvana per lo Zen è qui e ora, nel mezzo del samsara, e non c’è dubbio che sia uno stato di unità contrapposto alla molteplicità.

Il saggio vedrà subito il nirvana nelle cose più comuni; un insensato vorrà filosofeggiare su di esso e lo penserà come se fosse qualcosa di diverso.[3]

Si nota  come l’immediatezza sia un carattere fondamentale del Buddhismo Zen. Nella sua concezione la vita si muove troppo rapidamente perché ci si possa accostare per tentativi. Mentre ci si prepara faticosamente a raggiungere il Risveglio, la verità immediata continua a scorrere via. Ma va sottolineato che non viene così abbandonata la concezione di “Via”, e che questa viene solo interpretata in altra maniera. Alan Watts a questo proposito scrive metaforicamente che il discepolo Zen viene contrapposto a chi indugia sulla riva del fiume domandandosi quale sia il modo migliore di tuffarsi, sentendo la temperatura dell’acqua e chiedendosi come ci starà poi dentro, abituandosi a procrastinare le cose. Egli deve piuttosto camminare tranquillo fino al margine del fiume e lasciarvisi scivolare con calma, senza darsi il tempo di avere timori su ciò che sarà, o di trovare scuse per non buttarsi subito.

Questa mancanza di opposizione, questo lasciarsi  trasportare dal fiume della vita, deriva dall’insegnamento taoista del wu-wei, il segreto di dominare le circostanze senza opporvisi. Essendosi diffuso nella Cina taoista il Buddhismo Zen ha assorbito alcune caratteristiche del Taoismo. Assieme al carattere umoristico che alleggerisce entrambe le dottrine, questo aspetto della non-opposizione positiva è senza dubbio l’aspetto che più le accumuna. Tanto che lo Zen è stato spesso definito come un “andare avanti dritto”, perché esso è muoversi con la vita senza cercare di interrompere il suo scorrere; è una consapevolezza immediata delle cose nel loro vivere e muoversi. Grazie a questa adesione alla vita il discepolo Zen, che mantiene il passo con lei, la comprende ed è sempre pieno di meraviglia, perché ogni cosa è perpetuamente nuova. [4]

Una critica più volte mossa allo Zen, in ambito del suo carattere non-oppositivo, arriva da chi si chiede se nell’accettare tutti gli avvenimenti, buoni o cattivi, come manifestazioni della natura-Buddha, non si incorra nel pericolo di fare in modo che tutte le azioni possano essere giustificate, inciampando in una sorta di banale libertinismo. Ma lo Zen risponde implicitamente a questa critica, non permettendo a nessuno che si sia prima adattato a una profonda disciplina morale di intraprendere la sua pratica. Perciò i maestri Zen hanno sempre insistito sulla necessità di un severo addestramento preliminare alla pratica dei loro insegnamenti.

Questo severo addestramento porta a radicalizzare nello Zen aspetti che lo accomunano a  molte altre religioni e filosofie. Le idee di povertà, di libertà, di adesione alla realtà che lo caratterizzano si ritrovano infatti nel Taoismo, nel Vedanta, nel Sufismo, ma anche in branche del Cristianesimo. Ciò che di diverso ha lo Zen è il metodo. E questo metodo è ciò che ha permesso allo Zen, a differenza di quasi tutte le altre religioni e filosofie,  di tenere vivo lo spirito dei suoi primi seguaci fino ad oggi. A distanza di più di 1400 anni questo spirito non è degenerato in un mero “filosofismo” né in una formale osservanza di precetti di cui si è perso il significato. I fattori  che formano questo metodo sono due, e sono inseparabili. Il fatto che l’esperienza spirituale dello Zen è così precisa da essere inconfondibile, e il fatto che il metodo che insegnano i maestri non può avere che un unico risultato, l’esperienza spirituale diretta.

Il primo dei due fattori è noto con il nome di satori, il secondo con quello di koan. Il satori  consiste nel rendersi improvvisamente conto della verità dello Zen. Questa esperienza improvvisa è spesso descritta come un rovesciarsi della mente, simile al rovesciarsi di una bilancia su uno dei cui piatti si sia ammucchiato un peso superiore a quello dell’altro piatto. Generalmente si verifica dopo un lungo e concentrato sforzo diretto a scoprire il significato dello Zen. Le descrizioni di chi dice di averlo provato sono molteplici e vivaci, ma sono tutte accomunate dalla concezione che la rigida struttura in cui l’uomo vede di solito configurata la vita si frantuma improvvisamente, e ne viene un senso di sconfinata libertà. La prova del vero satori sta in questo, che chi lo sperimenta non ha il minimo dubbio sulla pienezza della sua liberazione.

Secondo i maestri, mentre il satori è la “misura dello Zen”, perché senza di esso non può assolutamente esserci Zen, il koan è la misura del satori. Letteralmente koan significa “documento pubblico”, ma ha assunto il significato di una forma di problema basato sulle azioni e sui detti dei maestri. E’ un problema che non ammette una soluzione intellettuale e la risposta spesso non ha alcun rapporto logico con la domanda.

Eccone un esempio:

Molto tempo fa un uomo teneva un’oca dentro una bottiglia. L’oca crebbe e crebbe finché non poté più uscire dalla bottiglia; l’uomo non voleva rompere la bottiglia e neanche far male all’oca; tu come te la caveresti?[5]

A prima vista i koan possono sembrare sciocchezze prive di senso. Ma in realtà tutti contengono qualcosa che somiglia ad un dilemma; si propone la scelta fra due alternative egualmente impossibili. Così ogni koan riflette il koan gigantesco della vita, giacché per lo Zen il problema filosofico della vita è di superare due alternative dell’affermazione e della negazione, che oscurano entrambe la verità. A molti studiosi occidentali la meditazione Zen, che si basa appunto sul lavorare sui koan, sembra scadere in una forma di auto-ipnosi, il cui scopo sarebbe di raggiungere uno stato di trance, additandola come “quietismo” o “pigro fantasticare”. In realtà è vero esattamente l’opposto. Lungi dall’essere qualcosa di quieto e pigro, anzi caratterizzato da un forte attivismo, lo studio dei koan richiede il più impegnato sforzo mentale e spirituale, e lo Zen mira a controllare e a sorpassare l’intelletto. E’ un mezzo per passare attraverso una barriera. Usando le parole dei maestri Zen è un mattone che serve per battere alla porta; quando la porta è stata aperta il mattone si può buttare via; e questa porta è la barriera che l’uomo innalza fra se stesso e la libertà dello spirito. Quando, con il satori, questa porta si apre, il discepolo non raggiunge uno stato di trance, ma un nuovo atteggiamento verso la vita.

Questo percorso spirituale fatto a cavallo della ardua meditazione sui koan, avviene all’interno dei monasteri in cui i discepoli si riuniscono alla ricerca della verità. Questo raccogliersi in comunità monastiche arriva allo Zen dalla tradizione buddhista, il cui primo Ordine (sangha) di monaci fu fondato dal Buddha Gotama dopo aver raggiunto il Risveglio. L’evoluzione della comunità Zen nella sua forma odierna deve essere fatta risalire al maestro Po-chang (in giapponese Hyakujo), morto nel 814 d. C. Egli comprese la necessità di creare istituzioni monastiche differenti da quelle che esistevano al suo tempo, diventate troppo contemplative e poco curanti alla tradizione; questa le avrebbe volute semplici e povere, parsimoniose e intente a evitare lo spreco delle offerte, mentre in realtà erano popolate da monaci lascivi e pigri. Per Po-chang era essenziale che i suoi seguaci non rifiutassero di partecipare alle comuni fatiche degli uomini. Se volevano aiutare la società ad applicare il Buddhismo alla vita quotidiana, non avrebbero ottenuto molto finché i maestri riconosciuti del Buddhismo fossero rimasti estranei a quella vita. Po-chang stabilì così una serie di regole e precetti per una comunità di pura ispirazione Zen e su questo lavoro, conosciuto con il titolo di Po-chuang Ching-kwei, si è basata da allora in poi la vita monastica del Buddhismo Zen.

Il primo principio della sua regola è che “un giorno senza lavoro è un giorno senza cibo”, lo spreco di tempo e di cose materiali è ridotto al minimo e ciò che possiede il monaco è tanto poco da bastare a fare un cuscino su cui dorme la notte. Tutto questo non perché l’ideale dello Zen sia l’ascetismo. Lo Zen è piuttosto un atteggiamento verso la vita, e come tale crede che sia bene usare proprio quel tanto di tempo, di energia e di materiale che è necessario per ottenere un dato scopo, né più né meno.

La giornata del monaco Zen si alterna tra attività specificatamente religiose, in cui i discepoli e i maestri meditano sulle antiche scritture, lavorano sui koan e ne producono di nuovi, e attività di lavoro necessario per mandare avanti il monastero. Ma per lo Zen anche questo lavoro materiale è un lavoro specificatamente religioso, nel suo compenetrarsi di filosofia e religione. Dal punto di vista della natura-Buddha, nessuna attività è più religiosa di un’altra. Perciò lo Zen scopre un valore religioso nelle faccende quotidiane e insiste su questa scoperta, perché usualmente gli uomini cercano la religione fuori dalla vita ordinaria. Nella letteratura Zen sono innumerevoli i riferimenti alla scoperta del satori nel lavoro di ogni giorno.

In conclusione va sottolineato e rilevato che non tutti i monaci rimangono per tutta la vita in un monastero. Dopo aver ottenuto la qualifica di maestri possono scegliere se accettare la cura di un’altra comunità o tornare alla consueta vita nel mondo, oppure, come scrive A.Watts

diventeranno insegnanti della Legge senza dimora, e viaggeranno da un luogo all’altro aiutando quelli che incontreranno durante il cammino. L’ideale del Bodhisattva non è infatti di rimanere fuori dal mondo, anzi, è quello di essere nel mondo, pur senza appartenere ad esso.[6]

Emerge così ancora una volta, nell’ideale del monaco Zen  che raggiunto il suo scopo si mette nuovamente in cammino animato da una nuova meta, il carattere dinamico del Buddhismo, che non trova mai un punto d’arrivo definitivo, e che fa del percorso e della Via l’essenziale dell’esistenza e terrena e spirituale.[7]


 


3.2. Le arti marziali

Lo Zen esercita in Giappone un influsso decisivo su tutte le arti. Alcune sono specificatamente Zen, anche su un piano storico, come la cerimonia del tè, l’arte di disporre i fiori, l’arte dei giardini. Altre furono profondamente trasformate, ricreate dallo Zen, e tra queste spiccano le arti marziali.

Quando lo Zen giunse in Giappone, il paese era dilaniato da guerre civili, violenze, massacri. Fu lo spirito Zen a trasformare le tecniche brutali della guerra in arti che avevano come fine non l’efficacia bellica, ma la ricerca di sé, il perfezionamento interiore di chi le praticava. Il combattimento divenne puramente spirituale, il nemico fu individuato in se stessi, nelle illusioni dell’ego che impediscono all’uomo di vedere la sua vera natura, e che si devono implacabilmente distruggere. In virtù di questa influenza nacque il Bushido, insieme di principi morali, codice d’onore, disciplina cavalleresca che ha come fine il perfezionamento delle qualità fisiche e morali dell’uomo. Fu per questo che lo Zen venne denominato “la religione del samurai” e il Bushido “la Via del guerriero”.

Il termine che designa le arti marziali in Giappone è Budo. La parola è formata da due ideogrammi, Bu e Do, che come consuetudine nella lingua giapponese hanno entrambi un proprio significato presi singolarmente. L’ideogramma Bu si può tradurre con “interrompere, arrestare la lotta”; l’ideogramma Do è quel filo d’Arianna che ci ha portato fin qui: la “Via”.[8] Il concetto di Do riveste un ruolo da protagonista nelle arti marziali di derivazione giapponese, accompagnandole tutte: esse sono Vie per conseguire qualcosa. Troviamo così il ken-do, la Via della spada, il karate-do, la Via della mano aperta, l’aiki-do, la Via che conduce all’armonia con l’energia vitale, il kiu-do, l’arte del tiro con l’arco e infine il ju-do, la Via dell’armonia e della cedevolezza.[9]

Così Budo, il termine che come abbiamo visto le racchiude tutte, si può tradurre come "Via che conduce alla cessazione della guerra attraverso il disarmo" oppure "Via che conduce alla pace", poiché nel Budo non si tratta solo di competere, ma di trovare la pace e il dominio di se stessi.

Sin dagli albori della sua storia l’essere umano ha desiderato superarsi, aspirando a raggiungere la più grande forza, ma anche la più grande saggezza. E il Budo è il metodo che in Giappone si segue per tentare di raggiungere questo scopo. Ma a questo metodo è indispensabile qualcosa che aiuti a unificare forza e saggezza, e questo fattore unificante è lo Zen. Il Budo ha prodotto una tecnica superiore trasmessa da maestro a discepolo, il waza, che risale all’epoca dei samurai e che implica un potere al di là della forza propria dell’individuo. Lo Zen da parte sua ha creato un’altra tecnica superiore che non soltanto conferisce forza fisica e mentale, ma apre anche la via a una saggezza simile a quella del Buddha: lo zazen. Questa tecnica consiste nel rimanere seduti in meditazione nella postura tradizionale, ma anche nel camminare, nello stare in piedi, nel respirare correttamente. E’ un’attitudine mentale, un’educazione profonda.

Ripercorrendo la storia del Bushido, troviamo le sue origini nella fusione che avvenne in Giappone tra Shintoismo e Buddhismo. Quest’ultimo, nonostante l’influenza reciproca, lo ha determinato tramite cinque aspetti fondamentali: l’acquietamento dei sentimenti, l’accettazione serena di fronte all’inevitabile, la padronanza di sé in qualsiasi circostanza, la maggiore identità con l’idea della morte che con quella della vita e la pura povertà.

Come un vero e proprio percorso, il Budo si può suddividere in tappe progressive. Ne riconosciamo essenzialmente tre, che possiamo assimilare a quelle dello Zen. La prima corrisponde ad un periodo di pratica; la seconda è quella della concentrazione senza coscienza; la terza quella in cui lo spirito attinge la vera libertà. In quest’ultima tappa il discepolo diventa maestro.

Lo Zen e il Budo si compenetrano l’un l’altro. Taisen Deshimaru, un famoso maestro Zen autore oltretutto di molti libri sull’argomento, in “Lo Zen e le arti marziali” scrive a proposito:

ho così compreso, a poco a poco, che le arti marziali e lo Zen hanno un unico sapore, e che la medicina orientale e lo Zen costituiscono un’unità. Kodo Sawaki diceva che il loro segreto è KYU SHIN RYU, l’arte di dirigere lo spirito.[10]

Con il concetto dell’arte di dirigere lo spirito, ci riallacciamo alla filosofia buddhista, e notiamo come ci si stia muovendo all’interno della concezione buddhista della nostra unica natura originaria. Seconda questa concezione quando si considerano i fenomeni di tutte le esistenze attraverso le illusioni, possiamo ritenere, sbagliando secondo il Buddhismo, che la loro natura originaria sia dipendente e mobile. Ma divenendo intimi con il nostro spirito, grazie all’ardua disciplina delle arti marziali al pari di altre vie indicate dal Dharma, ritroviamo la nostra natura originaria e riusciamo a comprendere che tutti i fenomeni e tutte le esistenze sono in noi stessi, e che ugualmente accade a tutti gli esseri. Ecco come il Budo si assimila perfettamente al Butsudo, la Via del Buddha.

Il segreto delle arti marziali consiste dunque nell’imparare a dirigere lo spirito. In un combattimento di arti marziali infatti il nostro spirito non deve lasciarsi influenzare da nessun azione e movimento dell’avversario. Si deve sempre muovere liberamente e deve sempre essere pronto a cogliere il gesto immediato, l’occasione, l’opportunità, quella che nello Zen è il satori, l’Illuminazione immediata. E a questo scopo che risulta fondamentale lo zazen, ciò che nello Zen rappresenta la meditazione, condizione mentale in cui la prerogativa consiste  nel non tentare di afferrare i pensieri, ma di lasciarli scorrere. Taisen Deshimaru scrive:

-Il riflesso della luna sull’acqua del fiume non si muove, non scorre. E’ solamente l’acqua che passa-. Durante zazen lasciate scorrere i pensieri. Potrete trovare così la sostanza dell’ego. […] Alla fine lo spirito sarà puro come la luna, come il riflesso che rimane fermo sull’acqua del fiume. […] Fate zazen e raggiungerete il satori. Non si può comprenderlo, coglierlo. Nessuna mano ha mai potuto cogliere il riflesso della luna sull’acqua.[11]

Va precisato che lo zazen non è concepito da chi lo pratica né come una semplice meditazione intesa come un pensiero profondo, né come un’esperienza misteriosa, né come una mortificazione del corpo. E’ una pratica che mira a ritornare integralmente alla pura condizione normale dell’uomo, condizione che non è riservata ai grandi maestri o ai santi. E’ senza misteri e alla portata di tutti. E’ nella concezione Zen divenire intimi con se stessi, ritrovare la propria natura, armonizzarsi con la vita universale.

Questo è cioè che avviene nelle arti marziali. In quelle che indossano gli abiti tradizionali ed affascinanti del Budo,  ma di riflesso inevitabilmente anche in quelle che indossano gli abiti multicolori e frenetici dello sport moderno.



 
3.3. Il Judo

 Judoka dall’età di quattro anni, ho fatto del judo la mia vita. Questo è il motivo principale che mi ha spinto ad inoltrarmi in questa dissertazione, con lo scopo di riallacciare in toto i miei interessi, e di fondere in un unico corpus mente e corpo: la filosofia e il judo.

E in quanto judoka occidentale, ho potuto toccare con mano la differenza che intercorre tra un’arte marziale intesa come Via, e un’arte marziale intesa come Sport. In realtà il confine non è così netto come potrebbe sembrare, e come l’acqua del mare bagna la spiaggia in cui viene assorbita per poi fluire indietro e prepararsi a bagnarla di nuovo, così il Do, la Via, invade di continuo, seppur nascostamente, la concezione di sport e teatro in cui le arti marziali, soprattutto in Occidente, sembrano essersi trasformate.

Grazie al judo possiamo notare uno degli aspetti più affascinanti ma anche paradossali dello Zen, la capacità di combinare la pace del nirvana con l’intensa attività della battaglia e le attività comuni della vita quotidiana. Ju-Do è la Via della cedevolezza, “l’arte gentile”. Un metodo di auto difesa senza armi, che si basa sul principio di sconfiggere l’avversario cedendogli e usando contro di lui la sua stessa forza. Secondo un’antica leggenda fu scoperto da qualcuno che guardava la neve cadere sui rami degli alberi. I rami di quelli rigidi e possenti, come la quercia, si spezzavano sotto il peso della neve che piano piano si accumulava, mentre i rami sottili e elastici, come quelli del salice, si piegavano sotto il peso della neve facendola scivolare via, senza farsi rompere né curvare.

Lao Tzu, il fondatore del taoismo, scriveva:

quando nasce, l’uomo è tenero e debole, quando muore è rigido e forte. Rigidità e forza accompagnano dunque la morte, morbidezza e debolezza accompagnano la vita.[12]

Notiamo così che nel judo emergono non a caso i due principi fondamentali dello Zen, quello del wu-wei, la non-opposizione e quello dell’ “andar avanti dritto”, che si esprime nell’immediata successione di difesa e attacco. Se grazie al wu-wei il judoka impara a non contrastare la forza dell’avversario con la propria, ma a sfruttare quella forza per far cadere il suo opponente, grazie al principio dell’ “andar avanti dritto” impara a non lasciare tra il movimento della difesa e quello dell’attacco il più piccolo intervallo. L’immediatezza del gesto implicita nell’intuizione che permette di unire i due movimenti, senza arrestarsi. Immediatezza che si può facilmente ricollegare a quella del satori nella pratica dello Zen.

Scrive Taisen Deshimaru:

La vittoria o la non-vittoria, la vita o la non vita si decidono nell’istante”[13]

Questo principio, oltre ad evidenziare la concezione che vede nell’arte marziale uno specchio della vita, ci offre un ottimo spunto per quella differenza tra arte marziale e sport citata in precedenza. Se per la prima la disciplina è vista appunto come un’allegoria della vita quotidiana, in cui non si può vincere o essere vinti  ma solo vivere, perché non esiste il tempo per pensare, ma solo quello dell’istante per agire, per l’altro la vittoria o la sconfitta assurgono a principi fondamentali per la pratica di tale disciplina. La differenza sta nello spirito di competizione che anima lo sport moderno, che mira a sconfiggere gli avversari, piuttosto che ciò che nell’individuo stesso si oppone alla propria vita nella ricerca della propria vera natura. Ma in entrambi i casi si tratta ad ogni modo di una lotta, di un combattimento. E’ lo scopo che è diverso.[14]

Jigoro Kano, colui che nel 1882 fondò il judo in un piccolo dojo[15]a Tokyo, insegnava che:

solo dopo aver tanto combattuto, così da arrivare al di là della nozione di vittoria e di sconfitta, si aprono le porte di una visione d' amore nella vita.[16]

Come il Buddha indicava la strada da percorrere ai suoi discepoli, che seguendo la sua dottrina avrebbero raggiunto la meta agognata, così il maestro di arti marziali indica ai suoi discepoli il percorso da compiere, non per raggiungere la vittoria in un combattimento, ma per comprendere a fondo il proprio spirito.

Il Budo si è infatti sviluppato sin dalle sue origini in relazione diretta con l’etica, la filosofia e la religione. Tutti gli antichi testi di Budo che ci sono stati trasmessi sviluppano una riflessione intellettuale sull’ego e sullo spirito. E fin dopo l’ultima guerra, il Bushido, quel codice di cui si è accennato in precedenza, era l’essenza dell’educazione giapponese; i maestri impartivano a tutti un’educazione sia militare che civile. E questo avveniva per ricercare quell’armonia che nella tradizione taoista scaturisce dalla perpetua e necessaria contrapposizione degli opposti: lo yin e lo yang. Perché ci sia il buio ci deve essere la luce. Perché ci sia il giusto ci deve essere lo sbagliato. Perché ci sia il femminile ci deve essere il maschile. E nella cultura giapponese la letteratura, la filosofia, la poesia, la stessa cultura hanno un carattere femminile, mentre il Budo, l’insieme delle arti marziali, è maschile. Non possono esistere separatamente e tra loro deve sempre regnare l’armonia.

Ecco perché le arti marziali, di cui il judo è uno degli esempi più brillanti di fusione di spirito e corpo, rivestono un ruolo determinante nella cultura giapponese. In esse si è trovato il modo di armonizzare la vita degli individui, che grazie alla costante pratica, alla ripetizione degli esercizi, alla meditazione e alla consapevolezza del proprio corpo, riescono ad “allenarsi” alla vita. E in questo modo imparano ad avvicinarsi a comprenderla, imitando in tutto e per tutto i filosofi che da millenni percorrono ognuno in modo differente quella Via che ricerca la comprensione, mossi dall’amore del sapere.

E’ per questo che nel descrivere il judo lo si può chiamare, come d’altronde usualmente avviene, una filosofia di vita.  Sia che lo si pratichi come sport, che come arte marziale tradizionalmente concepita. Il senso va adattato al mondo che ci circonda. E anche se in tempi antichi era più facile riconoscere la Via che indicava, quella Via ancora oggi è lì nascosta.

Qualsiasi siano il contesto in cui ci troviamo e il percorso che decidiamo di compiere, la Via è sotto i nostri piedi.



[1] Nel Buddhismo i Dhyana sono i quattro stadi di meditazione attraverso cui la mente arriva alla completa purezza necessaria per raggiungere l’Illuminazione.
[2] Si veda A. W. Watts. Lo Zen, Un modo di vita, lavoro e arte in Estremo Oriente, Bompiani, Milano, 2010, p.20.
[3] Si veda A. W. Watts, Lo Zen…cit., p.28.
[4] Si veda per l’argomento trattato T. Izutsu, La filosofia del buddhismo Zen, Ubaldini, Roma 1984, passim.
[5] Esempio di Koan tratto da  Alan W. Watts, Lo Zen…cit., p.65.
[6]   Si veda A. W. Watts, Lo Zen…cit., p. 93.
[7]  Si veda per l’argomento trattato T. Deshimaru, Lo zen passo per passo, Ubaldini, Roma 1981, passim.
[8] Bushido è una parola formata con l’aggiunta dell’ideogramma shi, che unito all’ideogramma Bu forma la parola Bu-shi: guerriero.
[9] Questo ruolo da protagonista non si arresta solo all’ambito delle arti marziali, ma si estende ad ambiti altri e più elevati. Il Butsu-Do è in Giappone la Via del Buddha, quella Via trattata fin qui che permette di scoprire la propria natura originaria e raggiungere il Risveglio.
[10] Si veda T. Deshimaru, traduzione dal francese di Fausto Taiten Guareschi, Lo Zen e le arti marziali, SE, Milano 1995, p. 24.
[11] Si veda T. Deshimaru, Lo Zen e le arti…cit., p.59.
[12] Si veda A. W. Watts, Lo Zen…cit., p. 112.
[13] Si veda T. Deshimaru , Lo Zen e le arti…cit., p. 31.
[14] Si veda per l’argomento trattato E. Degl’Innocenti, M. Rebasti, Storia e filosofia del judo, Ko-sen dojo, Firenze 1996, pp. 72-77.
[15] Il dojo è il luogo in cui ci si applica alle arti marziali, parola anch’essa di derivazione buddhista, in quanto nei monasteri buddhisti zen, il Semmon Dojo è la Sala della meditazione in cui ha il suo centro la vita della comunità.
[16] Si veda J. Kano, La mente prima dei muscoli gli scritti del fondatore del judo,  Mediterranee, Roma 2011, p. 10.

 

mercoledì 24 ottobre 2012

A casa di Chicca e Fra

Nel mezzo del cammin, tra il bagno e il divano,
mi ritrovai a non pestar per poco una roba scura.
E mo che è, cogito, sto coso nano?
Dalle parvenze lo direi una creatura!

"Coniglio, Alino, è sempre un coniglio,
e lo sai che non ve n'è uno bensì tre."
Mi apostrofa fra con un cipiglio.
Un'invasione, ecco cos'è!

Zompetto lesto schivando le cacchette,
e cerco all'uopo di lanciarmi sul divano.
Adoro le mansarde, ma che siano maledette,
craniata madornale e ci casco ben lontano.

Dai meandri del buio mi alzo e metto a fuoco...
Ma chi è che mi ha colpito con una mazza??
Fra ..è li ipnotizzato sul suo divano davanti a quel suo giuoco,
sillaba appena, a mo' d'automa:"non sanguinare o Chicca si incazza."

Manco s'è girato il villano.
Gli trillasse il telefono a fianco non lo sentirebbe.
Rimane li inchiodato a codesto giuoco e codesto divano.
Nemmanco al morso d'un serpente si smuoverebbe!

Poi, d'un tratto, odo nella toppa le chiavi trablaclare.
Chicca!! Oddio,e ora che faccio??
Devo scovare un qualcosa atto a tamponare.
Mi lancio al suolo e raccatto il primo straccio
.
Chicca entra e mi saluta e mi guarda con far curioso,
mi ci inchino, la saluto, e intanto mi stupisco:
Com'è morbido lo straccio, e caldo e...peloso...
Guardo la sposa e allora ahimè capisco.

Saetta la coniglia e non uno straccio nero!!!
La bestiola si ribella e m'aggredisce indispettita !!!
Mi invade il corpo un terrore vero!
Ma non per saetta spaventata quanto per Chicca lì basita!

Poi mi morde e il guaio e fatto,
caccio un urlo e d'istinto la getto.
Mi dispero nel momento dell'atto.
Ma Fra si tuffa e par un portiere provetto.

Chicca è svenuta e non se ne avvede,
ma Fra s'è destato dal suo limbo e l'ha parata.
La sposa rinviene in un batter d' ali e non ci crede.
Saetta e viva ed è lì, tra le braccio del suo sposo spaparanzata.

Un sorriso tra gli sposi e s'allenta le tensione,
e io capisco che è quello il vero amore...
E lo dico oggi, qui, da testimone.
Dammi tre parole sole amore e cuore.

Che è nei gesti più piccoli e insensati e folli che si riconosce la felicità.
Ognuno ha la sua vita e il suo modo di stare al mondo,
ma le importanze dell'essere in due sono la serenità e la complicità,
è quella la felicità a tutto tondo.

Ogni coppia ha la sua, privata e soggettiva,
poco importa tutto il resto.
Non va spiegata, giudicata e tanto arriva,
che sia tardi o che sia presto.

Li guardo e non posso che unirmi al loro sorriso.
Chicca mi sta odiando e ho la testa fracassata..
Il sangue mi cola copioso su tutto il viso.
Ma sono cosi belli che è tutto una figata.

E oggi, nel vostro giorno speciale, vi auguro di esserlo per sempre, felici e contenti.
E di divertirvi crescere assieme e fare tanti figli.
Ma non abbiate fretta, siate pazienti..
che tanto per ora siete già pieni di conigli!