Ultimo capitolo della mia tesi di laurea: "La Via sotto i piedi". Febbraio 2012
3. 1. Lo Zen
La parola Zen, è una parola di
cui oggigiorno si tende ad abusare. In realtà il breve termine indica qualcosa
che va ben oltre le conoscenze di chi nella cultura contemporanea lo usa nei
campi più disparati.
Come molte altre parole della
filosofia e della religione orientale, “Zen”
non ha un equivalente esatto in altre lingue. Sappiamo che è una parola
giapponese, che deriva dal cinese Ch’an,
a sua volta trascrizione del sanscrito Dhyana,
di solito tradotto con “meditazione”. Ma questa risulta essere una
traduzione non del tutto adeguata, perché in occidente “meditazione” significa
generalmente profondo pensiero e riflessione, mentre, nello Yoga da cui deriva, il termine
Dhyana è uno stato di alta coscienza in cui l’uomo giunge a fondersi con la
realtà suprema dell’universo.[1]
Lo stesso vale per Ch’an e Zen, con la differenza che mentre lo yogin, colui che segue la pratica yoga,
si apparta fuori dal mondo per meditare in solitudine, i seguaci dello Zen vivono in una comunità monastica in
cui maestro e discepoli condividono le
attività. Nello Zen non c’è infatti nulla di ultraterreno, è un atteggiamento
della mente applicabile tanto ai lavori più materiali e umili quanto alle
funzioni religiose.
Secondo la tradizione il Buddha
affermava che la sua dottrina intendeva mostrare solo la Via verso il Risveglio.
Ma, come dice Alan W. Watts, “i seguaci del Buddha hanno cercato
l’Illuminazione nel dito, invece di andare in silenzio verso il luogo che esso
indica.”[2]
Lo scopo che si propone la
scuola buddhista Zen, che ritiene il Risveglio qualcosa di vivo che non può
essere irrigidito in parole, è di penetrare oltre le speculazioni e le
definizioni per riportare in vita la visione originale del Buddha. Concetto
fondamentale dello Zen risulta essere
la compresenza di samsara e nirvana, e il fatto che cercare il
secondo fuori dal primo è assurdo e inutile. Il nirvana per lo Zen è qui e ora, nel mezzo del samsara, e non c’è dubbio che sia uno stato di unità contrapposto
alla molteplicità.
Il
saggio vedrà subito il nirvana nelle cose più comuni; un insensato vorrà
filosofeggiare su di esso e lo penserà come se fosse qualcosa di diverso.[3]
Si nota come l’immediatezza sia un carattere
fondamentale del Buddhismo Zen. Nella sua concezione la vita si muove troppo
rapidamente perché ci si possa accostare per tentativi. Mentre ci si prepara
faticosamente a raggiungere il Risveglio, la verità immediata continua a
scorrere via. Ma va sottolineato che non viene così abbandonata la concezione
di “Via”, e che questa viene solo interpretata in altra maniera. Alan Watts a
questo proposito scrive metaforicamente che il discepolo Zen viene contrapposto
a chi indugia sulla riva del fiume domandandosi quale sia il modo migliore di
tuffarsi, sentendo la temperatura dell’acqua e chiedendosi come ci starà poi
dentro, abituandosi a procrastinare le cose. Egli deve piuttosto camminare
tranquillo fino al margine del fiume e lasciarvisi scivolare con calma, senza
darsi il tempo di avere timori su ciò che sarà, o di trovare scuse per non buttarsi
subito.
Questa mancanza di opposizione,
questo lasciarsi trasportare dal fiume
della vita, deriva dall’insegnamento taoista del wu-wei, il segreto di dominare le circostanze senza opporvisi.
Essendosi diffuso nella Cina taoista il Buddhismo Zen ha assorbito alcune
caratteristiche del Taoismo. Assieme al carattere umoristico che alleggerisce
entrambe le dottrine, questo aspetto della non-opposizione positiva è senza
dubbio l’aspetto che più le accumuna. Tanto che lo Zen è stato spesso definito
come un “andare avanti dritto”, perché esso è muoversi con la vita senza
cercare di interrompere il suo scorrere; è una consapevolezza immediata delle
cose nel loro vivere e muoversi. Grazie a questa adesione alla vita il
discepolo Zen, che mantiene il passo
con lei, la comprende ed è sempre pieno di meraviglia, perché ogni cosa è
perpetuamente nuova. [4]
Una critica più volte mossa allo
Zen, in ambito del suo carattere
non-oppositivo, arriva da chi si chiede se nell’accettare tutti gli
avvenimenti, buoni o cattivi, come manifestazioni della natura-Buddha, non si
incorra nel pericolo di fare in modo che tutte le azioni possano essere
giustificate, inciampando in una sorta di banale libertinismo. Ma lo Zen risponde implicitamente a questa
critica, non permettendo a nessuno che si sia prima adattato a una profonda
disciplina morale di intraprendere la sua pratica. Perciò i maestri Zen
hanno sempre insistito sulla necessità di un severo addestramento
preliminare alla pratica dei loro insegnamenti.
Questo severo addestramento
porta a radicalizzare nello Zen aspetti
che lo accomunano a molte altre
religioni e filosofie. Le idee di povertà, di libertà, di adesione alla realtà che
lo caratterizzano si ritrovano infatti nel Taoismo, nel Vedanta, nel Sufismo,
ma anche in branche del Cristianesimo. Ciò che di diverso ha lo Zen
è il metodo. E questo metodo è ciò che ha permesso allo Zen, a differenza di quasi tutte le altre religioni e
filosofie, di tenere vivo lo spirito dei
suoi primi seguaci fino ad oggi. A distanza di più di 1400 anni questo spirito
non è degenerato in un mero “filosofismo” né in una formale osservanza di
precetti di cui si è perso il significato. I fattori che formano questo metodo sono due, e sono inseparabili.
Il fatto che l’esperienza spirituale dello
Zen è così precisa da essere inconfondibile, e il fatto che il metodo che
insegnano i maestri non può avere che un unico risultato, l’esperienza
spirituale diretta.
Il primo dei due fattori è noto
con il nome di satori, il secondo con
quello di koan. Il satori
consiste nel rendersi improvvisamente conto della verità dello Zen.
Questa esperienza improvvisa è spesso descritta come un rovesciarsi della
mente, simile al rovesciarsi di una bilancia su uno dei cui piatti si sia
ammucchiato un peso superiore a quello dell’altro piatto. Generalmente si
verifica dopo un lungo e concentrato sforzo diretto a scoprire il significato
dello Zen. Le descrizioni di chi dice di averlo provato sono molteplici e
vivaci, ma sono tutte accomunate dalla concezione che la rigida struttura in
cui l’uomo vede di solito configurata la vita si frantuma improvvisamente, e ne
viene un senso di sconfinata libertà. La prova del vero satori sta in questo, che chi lo sperimenta non ha il minimo dubbio
sulla pienezza della sua liberazione.
Secondo i maestri, mentre il satori è la “misura dello Zen”, perché senza di esso non può
assolutamente esserci Zen, il koan è la misura del satori. Letteralmente koan significa “documento pubblico”, ma ha
assunto il significato di una forma di problema basato sulle azioni e sui detti
dei maestri. E’ un problema che non ammette una soluzione intellettuale e la
risposta spesso non ha alcun rapporto logico con la domanda.
Eccone un esempio:
Molto
tempo fa un uomo teneva un’oca dentro una bottiglia. L’oca crebbe e crebbe
finché non poté più uscire dalla bottiglia; l’uomo non voleva rompere la
bottiglia e neanche far male all’oca; tu come te la caveresti?[5]
A prima vista i koan possono sembrare sciocchezze prive
di senso. Ma in realtà tutti contengono qualcosa che somiglia ad un dilemma; si
propone la scelta fra due alternative egualmente impossibili. Così ogni koan riflette il koan gigantesco della vita, giacché per lo Zen il problema filosofico della vita è di superare due alternative
dell’affermazione e della negazione, che oscurano entrambe la verità. A molti
studiosi occidentali la meditazione Zen, che si basa appunto sul lavorare sui koan, sembra scadere in una forma di
auto-ipnosi, il cui scopo sarebbe di raggiungere uno stato di trance,
additandola come “quietismo” o “pigro fantasticare”. In realtà è vero
esattamente l’opposto. Lungi dall’essere qualcosa di quieto e pigro, anzi
caratterizzato da un forte attivismo, lo studio dei koan richiede il più impegnato sforzo mentale e spirituale, e lo Zen
mira a controllare e a sorpassare l’intelletto. E’ un mezzo per passare
attraverso una barriera. Usando le parole dei maestri Zen è un mattone che
serve per battere alla porta; quando la porta è stata aperta il mattone si può
buttare via; e questa porta è la barriera che l’uomo innalza fra se stesso e la
libertà dello spirito. Quando, con il satori,
questa porta si apre, il discepolo non raggiunge uno stato di trance, ma un
nuovo atteggiamento verso la vita.
Questo percorso spirituale fatto
a cavallo della ardua meditazione sui koan,
avviene all’interno dei monasteri in cui i discepoli si riuniscono alla ricerca
della verità. Questo raccogliersi in comunità monastiche arriva allo Zen dalla tradizione buddhista, il cui
primo Ordine (sangha) di monaci fu
fondato dal Buddha Gotama dopo aver raggiunto il Risveglio. L’evoluzione della
comunità Zen nella sua forma odierna deve essere fatta risalire al maestro
Po-chang (in giapponese Hyakujo), morto nel 814 d. C. Egli comprese la
necessità di creare istituzioni monastiche differenti da quelle che esistevano
al suo tempo, diventate troppo contemplative e poco curanti alla tradizione;
questa le avrebbe volute semplici e povere, parsimoniose e intente a evitare lo
spreco delle offerte, mentre in realtà erano popolate da monaci lascivi e
pigri. Per Po-chang era essenziale che i suoi seguaci non rifiutassero di
partecipare alle comuni fatiche degli uomini. Se volevano aiutare la società ad
applicare il Buddhismo alla vita quotidiana, non avrebbero ottenuto molto
finché i maestri riconosciuti del Buddhismo fossero rimasti estranei a quella
vita. Po-chang stabilì così una serie di regole e precetti per una comunità di
pura ispirazione Zen e su questo lavoro, conosciuto con il titolo di Po-chuang Ching-kwei, si è basata da
allora in poi la vita monastica del Buddhismo Zen.
Il primo principio della sua
regola è che “un giorno senza lavoro è un giorno senza cibo”, lo spreco di
tempo e di cose materiali è ridotto al minimo e ciò che possiede il monaco è
tanto poco da bastare a fare un cuscino su cui dorme la notte. Tutto questo non
perché l’ideale dello Zen sia l’ascetismo. Lo Zen è piuttosto un atteggiamento verso la vita, e come tale crede che
sia bene usare proprio quel tanto di tempo, di energia e di materiale che è
necessario per ottenere un dato scopo, né più né meno.
La giornata del monaco Zen si alterna tra attività
specificatamente religiose, in cui i discepoli e i maestri meditano sulle antiche
scritture, lavorano sui koan e ne
producono di nuovi, e attività di lavoro necessario per mandare avanti il
monastero. Ma per lo Zen anche questo
lavoro materiale è un lavoro specificatamente religioso, nel suo compenetrarsi
di filosofia e religione. Dal punto di vista della natura-Buddha, nessuna
attività è più religiosa di un’altra. Perciò lo Zen scopre un valore religioso
nelle faccende quotidiane e insiste su questa scoperta, perché usualmente gli
uomini cercano la religione fuori dalla vita ordinaria. Nella letteratura Zen sono innumerevoli i riferimenti
alla scoperta del satori nel lavoro di
ogni giorno.
In conclusione va sottolineato e
rilevato che non tutti i monaci rimangono per tutta la vita in un monastero.
Dopo aver ottenuto la qualifica di maestri possono scegliere se accettare la
cura di un’altra comunità o tornare alla consueta vita nel mondo, oppure, come
scrive A.Watts
diventeranno
insegnanti della Legge senza dimora, e viaggeranno
da un luogo all’altro aiutando quelli che incontreranno durante il cammino. L’ideale del Bodhisattva non è
infatti di rimanere fuori dal mondo, anzi, è quello di essere nel mondo, pur
senza appartenere ad esso.[6]
Emerge così ancora una volta,
nell’ideale del monaco Zen che raggiunto
il suo scopo si mette nuovamente in cammino animato da una nuova meta, il
carattere dinamico del Buddhismo, che non trova mai un punto d’arrivo
definitivo, e che fa del percorso e della Via l’essenziale dell’esistenza e
terrena e spirituale.[7]
3.2. Le arti marziali
Lo Zen esercita in Giappone un influsso decisivo su tutte le arti. Alcune
sono specificatamente Zen, anche su
un piano storico, come la cerimonia del tè, l’arte di disporre i fiori, l’arte
dei giardini. Altre furono profondamente trasformate, ricreate dallo Zen, e tra queste spiccano le arti
marziali.
Quando lo Zen giunse in Giappone, il paese era
dilaniato da guerre civili, violenze, massacri. Fu lo spirito Zen a trasformare le tecniche brutali
della guerra in arti che avevano come fine non l’efficacia bellica, ma la
ricerca di sé, il perfezionamento interiore di chi le praticava. Il
combattimento divenne puramente spirituale, il nemico fu individuato in se
stessi, nelle illusioni dell’ego che impediscono all’uomo di vedere la sua vera
natura, e che si devono implacabilmente distruggere. In virtù di questa
influenza nacque il Bushido, insieme
di principi morali, codice d’onore, disciplina cavalleresca che ha come fine il
perfezionamento delle qualità fisiche e morali dell’uomo. Fu per questo che lo Zen
venne denominato “la religione del samurai” e il Bushido “la Via del
guerriero”.
Il termine che designa le arti marziali
in Giappone è Budo. La parola è
formata da due ideogrammi, Bu e Do, che come consuetudine nella lingua
giapponese hanno entrambi un proprio significato presi singolarmente.
L’ideogramma Bu si può tradurre con
“interrompere, arrestare la lotta”; l’ideogramma Do è quel filo d’Arianna che ci ha portato fin qui: la “Via”.[8]
Il concetto di Do riveste un ruolo da
protagonista nelle arti marziali di derivazione giapponese, accompagnandole
tutte: esse sono Vie per conseguire qualcosa. Troviamo così il ken-do, la Via della spada, il karate-do, la Via della mano aperta, l’aiki-do, la Via che conduce
all’armonia con l’energia vitale, il kiu-do,
l’arte del tiro con l’arco e infine il ju-do,
la Via dell’armonia e della cedevolezza.[9]
Così Budo, il termine che come abbiamo visto le racchiude tutte, si può
tradurre come "Via che conduce alla cessazione della guerra attraverso il
disarmo" oppure "Via che conduce alla pace", poiché nel Budo non si tratta solo di competere, ma
di trovare la pace e il dominio di se stessi.
Sin dagli albori della sua
storia l’essere umano ha desiderato superarsi, aspirando a raggiungere la più
grande forza, ma anche la più grande saggezza. E il Budo è il metodo che in Giappone si segue per tentare di
raggiungere questo scopo. Ma a questo metodo è indispensabile qualcosa che
aiuti a unificare forza e saggezza, e questo fattore unificante è lo Zen. Il Budo ha prodotto una tecnica superiore
trasmessa da maestro a discepolo, il waza,
che risale all’epoca dei samurai e che implica un potere al di là della
forza propria dell’individuo. Lo Zen da parte sua ha creato un’altra tecnica
superiore che non soltanto conferisce forza fisica e mentale, ma apre anche la
via a una saggezza simile a quella del Buddha: lo zazen. Questa tecnica consiste nel rimanere seduti in meditazione
nella postura tradizionale, ma anche nel camminare, nello stare in piedi, nel
respirare correttamente. E’ un’attitudine mentale, un’educazione profonda.
Ripercorrendo la storia del Bushido,
troviamo le sue origini nella fusione che avvenne in Giappone tra Shintoismo e
Buddhismo. Quest’ultimo, nonostante l’influenza reciproca, lo ha determinato
tramite cinque aspetti fondamentali: l’acquietamento dei sentimenti,
l’accettazione serena di fronte all’inevitabile, la padronanza di sé in
qualsiasi circostanza, la maggiore identità con l’idea della morte che con
quella della vita e la pura povertà.
Come un vero e proprio percorso,
il Budo si può suddividere in tappe
progressive. Ne riconosciamo essenzialmente tre, che possiamo assimilare a
quelle dello Zen. La prima corrisponde ad un periodo di pratica; la seconda è
quella della concentrazione senza coscienza; la terza quella in cui lo spirito
attinge la vera libertà. In quest’ultima tappa il discepolo diventa maestro.
Lo Zen e il Budo si compenetrano l’un l’altro. Taisen Deshimaru, un famoso
maestro Zen autore oltretutto di molti libri sull’argomento, in “Lo Zen e le
arti marziali” scrive a proposito:
ho così
compreso, a poco a poco, che le arti marziali e lo Zen hanno un unico sapore, e
che la medicina orientale e lo Zen costituiscono un’unità. Kodo Sawaki diceva
che il loro segreto è KYU SHIN RYU, l’arte di dirigere lo spirito.[10]
Con il concetto dell’arte di
dirigere lo spirito, ci riallacciamo alla filosofia buddhista, e notiamo come
ci si stia muovendo all’interno della concezione buddhista della nostra unica
natura originaria. Seconda questa concezione quando si considerano i fenomeni
di tutte le esistenze attraverso le illusioni, possiamo ritenere, sbagliando
secondo il Buddhismo, che la loro natura originaria sia dipendente e mobile. Ma
divenendo intimi con il nostro spirito, grazie all’ardua disciplina delle arti
marziali al pari di altre vie indicate dal Dharma, ritroviamo la nostra natura
originaria e riusciamo a comprendere che tutti i fenomeni e tutte le esistenze
sono in noi stessi, e che ugualmente accade a tutti gli esseri. Ecco come il Budo si assimila perfettamente al Butsudo, la Via del Buddha.
Il segreto delle arti marziali
consiste dunque nell’imparare a dirigere lo spirito. In un combattimento di
arti marziali infatti il nostro spirito non deve lasciarsi influenzare da
nessun azione e movimento dell’avversario. Si deve sempre muovere liberamente e
deve sempre essere pronto a cogliere il gesto immediato, l’occasione, l’opportunità,
quella che nello Zen è il satori,
l’Illuminazione immediata. E a questo scopo che risulta fondamentale lo zazen, ciò che nello Zen rappresenta la meditazione, condizione
mentale in cui la prerogativa consiste nel
non tentare di afferrare i pensieri, ma di lasciarli scorrere. Taisen Deshimaru
scrive:
-Il
riflesso della luna sull’acqua del fiume non si muove, non scorre. E’ solamente
l’acqua che passa-. Durante zazen lasciate scorrere i pensieri. Potrete trovare
così la sostanza dell’ego. […] Alla fine lo spirito sarà puro come la luna,
come il riflesso che rimane fermo sull’acqua del fiume. […] Fate zazen e
raggiungerete il satori. Non si può comprenderlo, coglierlo. Nessuna mano ha
mai potuto cogliere il riflesso della luna sull’acqua.[11]
Va precisato che lo zazen non è concepito da chi lo pratica
né come una semplice meditazione intesa come un pensiero profondo, né come un’esperienza
misteriosa, né come una mortificazione del corpo. E’ una pratica che mira a
ritornare integralmente alla pura condizione normale dell’uomo, condizione che
non è riservata ai grandi maestri o ai santi. E’ senza misteri e alla portata
di tutti. E’ nella concezione Zen
divenire intimi con se stessi, ritrovare la propria natura, armonizzarsi con la
vita universale.
Questo è cioè che avviene nelle
arti marziali. In quelle che indossano gli abiti tradizionali ed affascinanti del
Budo, ma di riflesso inevitabilmente anche in quelle
che indossano gli abiti multicolori e frenetici dello sport moderno.
3.3. Il Judo
E in quanto judoka occidentale,
ho potuto toccare con mano la differenza che intercorre tra un’arte marziale
intesa come Via, e un’arte marziale intesa come Sport. In realtà il confine non
è così netto come potrebbe sembrare, e come l’acqua del mare bagna la spiaggia
in cui viene assorbita per poi fluire indietro e prepararsi a bagnarla di
nuovo, così il Do, la Via, invade di
continuo, seppur nascostamente, la concezione di sport e teatro in cui le arti
marziali, soprattutto in Occidente, sembrano essersi trasformate.
Grazie al judo possiamo notare
uno degli aspetti più affascinanti ma anche paradossali dello Zen, la capacità
di combinare la pace del nirvana con
l’intensa attività della battaglia e le attività comuni della vita quotidiana. Ju-Do è la Via della cedevolezza,
“l’arte gentile”. Un metodo di auto difesa senza armi, che si basa sul
principio di sconfiggere l’avversario cedendogli e usando contro di lui la sua
stessa forza. Secondo un’antica leggenda fu scoperto da qualcuno che guardava
la neve cadere sui rami degli alberi. I rami di quelli rigidi e possenti, come
la quercia, si spezzavano sotto il peso della neve che piano piano si
accumulava, mentre i rami sottili e elastici, come quelli del salice, si
piegavano sotto il peso della neve facendola scivolare via, senza farsi rompere
né curvare.
Lao Tzu, il fondatore del
taoismo, scriveva:
quando
nasce, l’uomo è tenero e debole, quando muore è rigido e forte. Rigidità e
forza accompagnano dunque la morte, morbidezza e debolezza accompagnano la vita.[12]
Notiamo così che nel judo
emergono non a caso i due principi fondamentali dello Zen, quello del wu-wei, la non-opposizione e quello
dell’ “andar avanti dritto”, che si esprime nell’immediata successione di
difesa e attacco. Se grazie al wu-wei
il judoka impara a non contrastare la forza dell’avversario con la propria, ma
a sfruttare quella forza per far cadere il suo opponente, grazie al principio
dell’ “andar avanti dritto” impara a non lasciare tra il movimento della difesa
e quello dell’attacco il più piccolo intervallo. L’immediatezza del gesto
implicita nell’intuizione che permette di unire i due movimenti, senza
arrestarsi. Immediatezza che si può facilmente ricollegare a quella del satori nella pratica dello Zen.
Scrive Taisen Deshimaru:
La vittoria
o la non-vittoria, la vita o la non vita si decidono nell’istante”[13]
Questo principio, oltre ad
evidenziare la concezione che vede nell’arte marziale uno specchio della vita, ci
offre un ottimo spunto per quella differenza tra arte marziale e sport citata
in precedenza. Se per la prima la disciplina è vista appunto come un’allegoria
della vita quotidiana, in cui non si può vincere o essere vinti ma solo vivere, perché non esiste il tempo
per pensare, ma solo quello dell’istante per agire, per l’altro la vittoria o
la sconfitta assurgono a principi fondamentali per la pratica di tale
disciplina. La differenza sta nello spirito di competizione che anima lo sport
moderno, che mira a sconfiggere gli avversari, piuttosto che ciò che
nell’individuo stesso si oppone alla propria vita nella ricerca della propria
vera natura. Ma in entrambi i casi si tratta ad ogni modo di una lotta, di un
combattimento. E’ lo scopo che è diverso.[14]
Jigoro Kano, colui che nel 1882
fondò il judo in un piccolo dojo[15]a
Tokyo, insegnava che:
solo
dopo aver tanto combattuto, così da arrivare al di là della nozione di vittoria
e di sconfitta, si aprono le porte di una visione d' amore nella vita.[16]
Come il Buddha indicava la
strada da percorrere ai suoi discepoli, che seguendo la sua dottrina avrebbero
raggiunto la meta agognata, così il maestro di arti marziali indica ai suoi
discepoli il percorso da compiere, non per raggiungere la vittoria in un
combattimento, ma per comprendere a fondo il proprio spirito.
Il Budo si è infatti sviluppato sin dalle sue origini in relazione
diretta con l’etica, la filosofia e la religione. Tutti gli antichi testi di Budo che ci sono stati trasmessi sviluppano una riflessione
intellettuale sull’ego e sullo spirito. E fin dopo l’ultima guerra, il Bushido,
quel codice di cui si è accennato in precedenza, era l’essenza dell’educazione
giapponese; i maestri impartivano a tutti un’educazione sia militare che
civile. E questo avveniva per ricercare quell’armonia che nella tradizione
taoista scaturisce dalla perpetua e necessaria contrapposizione degli opposti:
lo yin e lo yang. Perché ci sia il buio ci deve essere la luce. Perché ci sia
il giusto ci deve essere lo sbagliato. Perché ci sia il femminile ci deve
essere il maschile. E nella cultura giapponese la letteratura, la filosofia, la
poesia, la stessa cultura hanno un carattere femminile, mentre il Budo, l’insieme delle arti marziali, è
maschile. Non possono esistere separatamente e tra loro deve sempre regnare
l’armonia.
Ecco perché le arti marziali, di
cui il judo è uno degli esempi più brillanti di fusione di spirito e corpo, rivestono
un ruolo determinante nella cultura giapponese. In esse si è trovato il modo di
armonizzare la vita degli individui, che grazie alla costante pratica, alla
ripetizione degli esercizi, alla meditazione e alla consapevolezza del proprio
corpo, riescono ad “allenarsi” alla vita. E in questo modo imparano ad
avvicinarsi a comprenderla, imitando in tutto e per tutto i filosofi che da
millenni percorrono ognuno in modo differente quella Via che ricerca la
comprensione, mossi dall’amore del sapere.
E’ per questo che nel descrivere
il judo lo si può chiamare, come d’altronde usualmente avviene, una filosofia
di vita. Sia che lo si pratichi come
sport, che come arte marziale tradizionalmente concepita. Il senso va adattato
al mondo che ci circonda. E anche se in tempi antichi era più facile
riconoscere la Via che indicava, quella Via ancora oggi è lì nascosta.
Qualsiasi siano il contesto in
cui ci troviamo e il percorso che decidiamo di compiere, la Via è sotto i
nostri piedi.
[1]
Nel Buddhismo i Dhyana sono i quattro
stadi di meditazione attraverso cui la mente arriva alla completa purezza
necessaria per raggiungere l’Illuminazione.
[2]
Si veda A. W. Watts. Lo Zen, Un modo di
vita, lavoro e arte in Estremo Oriente, Bompiani, Milano, 2010, p.20.
[3]
Si veda A. W. Watts, Lo Zen…cit.,
p.28.
[4]
Si veda per l’argomento trattato T. Izutsu, La
filosofia del buddhismo Zen, Ubaldini, Roma 1984, passim.
[5]
Esempio di Koan tratto da Alan W. Watts,
Lo Zen…cit., p.65.
[6] Si veda A. W. Watts, Lo Zen…cit., p. 93.
[7] Si veda per l’argomento trattato T. Deshimaru,
Lo zen passo per passo, Ubaldini,
Roma 1981, passim.
[8]
Bushido è una parola formata con l’aggiunta dell’ideogramma shi, che unito all’ideogramma Bu forma la
parola Bu-shi: guerriero.
[9]
Questo ruolo da protagonista non si arresta solo all’ambito delle arti
marziali, ma si estende ad ambiti altri e più elevati. Il Butsu-Do è in Giappone la Via
del Buddha, quella Via trattata fin qui che permette di scoprire la propria
natura originaria e raggiungere il Risveglio.
[10]
Si veda T. Deshimaru, traduzione dal
francese di Fausto Taiten Guareschi, Lo
Zen e le arti marziali, SE, Milano 1995, p. 24.
[11]
Si veda T. Deshimaru, Lo Zen e le
arti…cit., p.59.
[12]
Si veda A. W. Watts, Lo Zen…cit., p.
112.
[13]
Si veda T. Deshimaru , Lo Zen e le arti…cit.,
p. 31.
[14]
Si veda per l’argomento trattato E. Degl’Innocenti, M. Rebasti, Storia e filosofia del judo, Ko-sen
dojo, Firenze 1996, pp. 72-77.
[15]
Il dojo è il luogo in cui ci si
applica alle arti marziali, parola anch’essa di derivazione buddhista, in
quanto nei monasteri buddhisti zen, il Semmon
Dojo è la Sala della meditazione in
cui ha il suo centro la vita della comunità.
[16]
Si veda J. Kano, La mente prima dei
muscoli gli scritti del fondatore del judo,
Mediterranee, Roma 2011, p. 10.