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Mi chiamo Alessandro Bruyère, vivo a Torino, ho 35 anni, e sono un judoka.
Fa sempre sorridere osservare l’espressione di chi ascolta
queste parole. E’ difficile che qualcuno non addetto ai lavori riesca a
cogliere in quell’ultima parola, che così tanto mi rappresenta, l’essenza di
ciò che nasconde.
Il mio presentarmi come judoka non è un mero affermare che,
come si sente spesso nel linguaggio comune, faccio
judo.
E non è neanche un tentativo di apparire in un certo modo o
di appropriarmi di ciò che non è mio.
E’ un riconoscermi in quel termine. E’ un rendermi conto che
ciò che sono, e chi sono, è il
risultato di ciò che ho fatto finora. E nonostante io abbia fatto nella mia
vita un sacco di cose meravigliose, alle base c’è sempre stato il judo. E’
sempre stato il mio filo di Arianna, ciò che mi ha aiutato a destreggiarmi nel
labirinto della vita di tutti i giorni, e che ha sempre rappresentato per me il
sentiero che ho avuto e che ho sotto i piedi.
Per questo, sono un judoka.
Mi è stato chiesto più volte, nell’arco di una vita intera,
che cosa mi abbia dato il judo. Se dovessi fare un elenco dettagliato di ciò
che sento che mi ha dato citerei senza dubbio la sicurezza in me stesso. La
capacità di risolvere problemi e situazioni. L’adattabilità. La non paura di
cadere, in qualsiasi circostanza, letterale e metaforica. La capacità, un
grande classico, di rialzarmi. La bellezza della gara. La pervicacia e la
testardaggine. La confidenza con la vittoria, e con la sconfitta. La tecnica.
Le orecchie gonfie e le dita storte. Quell’irrazionale piacere di avercele, le
orecchie rotte e le dita storte. Il rispetto e la disciplina. Il profumo del
tatami, e la sensazione che quest’ultimo dà nel riempire la pianta di un piede
abituato a salirvici.
Citerei la mia forza, non quella fisica ovviamente.
Citerei le delusioni, figlie legittime di aspettative e
sogni. E quindi citerei i sogni. Quelli nel cassetto, quelli raggiunti e quelli
che sono rimasti tali. In qualsiasi modo li si pensi, la benzina vera per un
corpo semi perfetto come il nostro.
Citerei le innumerevoli gare e gli innumerevoli viaggi. Gli
alberghi di lusso delle gare più prestigiose e quelli a una stella (forse) delle
gare (forse) più belle. Pulimini, aerei, macchine, treni, bus. Catapecchie
economiche e appartamenti mozzafiato. La capacità di fare la borsa. Centinaia, migliaia di borse. Fatte e sfatte e poi
rifatte e risfatte. Come si piega un judogi? E una cintura?
Citerei, seguendo il flusso di coscienza in cui mi sono
immerso, l’affetto mostratomi e sentito a mia volta per i miei genitori, mia
madre sempre preoccupata e mio padre primo tifoso in assoluto, presente ad ogni
gara. In qualche modo entrambi anche ad ogni allenamento. Se non fosse stato
per loro non lo sarei, un judoka. E mio
fratello, senza il quale indubbiamente non sarei la persona che sono.
Citerei ancora una quantità illimitata di aspetti, credo, ma
immagino che potrei assommarli tutti in un unico concetto: quello dell’esperienza.
Un’esperienza che è fatta di conoscenza e sensazioni, di
emozioni difficile da dire. Di avvenimenti che rimarranno per sempre, alcuni
esilaranti, altri incredibilmente emozionanti, altri umilianti, alcuni
difficili da superare. Tutti irripetibili.
Credo che sia questo, ragionando mentre scrivo queste
parole, il vero valore aggiunto del judo per me.
Non sono in grado di dire se esista o meno qualcos’altro in
grado di fornire una medesima esperienza. Cioè, esiste senza dubbio, ma non
conoscendo niente altro di simile non posso fare paragoni.
Credo che sia proprio l’esperienza che il judo ti dà, a
renderti judoka al 100%.
E non sto intendendo l’esperienza data dal puro agonismo. E’
vero, il mio judo è sempre stato agonistico e improntato al raggiungimento di
mete sportive. Ma come ho già avuto modo di scrivere in altre sedi, non penso
si possa parlare di tipologie di judo differenti. Può essere diverso
l’approccio, la quantità di tempo che ci si dedica, i fini. Ma il judo è sempre
lo stesso. In qualsiasi modo e in qualsiasi luogo lo si pratichi, sono
fermamente convinto che regali un’esperienza ineguagliabile. E diversa per
ciascuno di noi. I miei studi e i miei viaggi hanno arricchito il mio judo,
spogliandolo in parte dalle vesti di agonista e lasciandolo solo in judogi.
Ho avuto l’incredibile fortuna di poter fare del judo la mia
vita in toto. E’ il mio lavoro, oltre che la mia passione. In seguito ai
risultati ottenuti in età giovanile a 21 anni ho avuto il privilegio di entrare
a far parte del Gruppo Sportivo delle Fiamme Azzurre, quello della Polizia
Penitenziaria, che mi ha permesso di dedicarmi al 100% al tentativo di
raggiungere i miei sogni e che tuttora mi permette di farlo.
Questa mia fortuna si è tradotta nel raggiungimento di un
altro grande traguardo, quello di diventare un allenatore. Le sfide cambiano,
le difficoltà si trasformano, le emozioni si moltiplicano. Il judo rimane.
Ora ho un modo per trovare un senso ai i miei errori, e per
darne uno diverso a ciò che invece ho fatto bene. Ora guardo sia indietro lungo
la strada fatta fino ad adesso, sia avanti verso quella che mi aspetta, e trovo
un senso ancora maggiore a questa mia esperienza.
Il mio è un tentativo di trasmettere ciò che il judo mi ha
dato e mi sta dando. Qui, con queste parole. Sul tatami, coi miei ragazzi. E
nella vita di tutti i giorni, con le persone che mi stanno accanto.
L’obiettivo è quello di trovare il modo giusto per farlo. E’
difficile tradurre le proprie emozioni e le proprie sensazioni agli altri. Il
rischio è quello di volere che le altre persone capiscano al volo, vivano le
situazioni come le ho vissute io, imparino le cose come le ho imparate io. Più
per facilità di comunicazione, che altro.
Ma proprio come quando combattevo, quando ogni avversario
era diverso e ognuno aveva il suo modo personale di fare judo, rendendo
quest’arte marziale senza dubbio una delle più affascinanti e difficili al
mondo, ogni mio allievo, ogni persona, vive il judo e la vita a modo suo. E
averlo capito davvero, dopo un attimo di sconforto di fronte ad una difficoltà
così grande, mi ha dato una visione ancora più favolosa del judo, che come mio
padre non si è mai stancato di ripetermi: è lo
specchio della vita. E mi ha dato soprattutto nuovi stimoli e nuova voglia
di continuare a calcare quel tatami.
E capisco che non solo il judo mi ha dato ciò che sono, ma
mi darà ciò che sarò. Che io continui a salirci sul tatami, come spero
fermamente, sia che io non lo faccia.
Non è questione di fare judo, ma di essere judoka.